giovedì 24 novembre 2011

Overdose

Vado avanti per overdose.
Di malinconia, e futile insofferenza, da un paio di giorni. Per qualcosa che non riesco a decifrare, per un bisogno che non ha lineamenti, ha solo accenni, sfocature, indizi.
Di chilometri. Mi sposto a trottola, su e giù, di mattina, di sera, con la valigia, senza valigia, in macchina, in aereo, in autobus, in tram, in treno, a piedi, con l'ombrello aperto (se piove), con l'ombrello chiuso (non sia mai piove), col computer in borsa, con troppi cavi, con la batteria perennemente in carica, con due mutande pulite e lo spazzolino.
Di persone. Persone belle, appena conosciute, persone insignificanti, persone fastidiose, persone che non conosco e che si accalcano intorno, davanti, dietro, di lato, come formiche, come sardine. Persone che vorrei conoscere meglio, che mi attirano, mi mettono in difficoltà, mi stimolano, mi sfidano.
Di parole. Parole dette, ripetute, declamate, scandite, spiegate. E sentite, appuntate, scherzate, divertite. Parole d'ordinanza, parole scelte per l'occasione. Parole scritte, stampate, rivedute e corrette.
Di silenzi. Di troppi, troppi silenzi. Voglia di non dire, di sottintendere e di essere comunque, peer fortuna o per arte, capita e soddisfatta. Di silenzi delusi e disattesi.

In overdose, perché ogni volta non c'è equilibrio: o tutto o niente, di ognuno degli ingredienti. O esplosione o deserto. O eccesso o carenza. Un mondo in due ore, il mondo opposto le due ore successive.
Come una droga dolorosa, come una medicina obbligatoria. Come un sacrificio per forza.
Voglio la pazienza e non la trovo. Voglio l'astinenza, l'atarassia, la vacanza, il giusto tempo per tutto.
Voglio e non ho. Non è giornata.