lunedì 29 dicembre 2014

Cose belle #6

Festeggiare l'arrivo del tuo compleanno insegnando a tuo suocero a fare tequila-sale-limone.



domenica 21 dicembre 2014

Capisci di essere invecchiata quando...

... Realizzi che tu andavi al cinema a vedere Titanic e intanto nascevano quelli che fra poco prenderanno la patente e avranno diritto di voto.

O_o


lunedì 15 dicembre 2014

Alice nel paese dei call center

E' stato più o meno un anno e mezzo fa quando per la prima volta sono entrata nel blog di Dalila: Le mie prigioni (Silvio Pellico stava meglio). Ricordo che per me era un periodaccio, una di quelle curve negative della sinusoide dell'umore che testardamente si ostinava a durare tanto, ma tanto.
Ho sbirciato dalla finestra di Dalila e ho trovato un'anima affine alla mia. Una sorta di transfert di freudiana memoria, quella sensazione che ti fa dire: guarda, siamo uguali. Dalila lavorava in un call center e raccontava la sua tragicomica esistenza professionale in post agrodolci, spesso malinconici, sempre ironici. Quello che ci voleva, in quel momento, per me.

Ho continuato a leggere le sue evoluzioni - e continuo tuttora - perché sempre, come quella prima volta, mi succede di riconoscermi nelle sue parole e nei suoi stati d'animo, nonostante non ci conosciamo davvero, viviamo in posti differenti, abbiamo storie diverse.

Succede che Dalila ha scritto un libro. Io l'ho comprato, subito. E l'ho letto.

Torino-Milano, Milano-Torino, Torino-Milano. Ci ho messo tre tratte da pendolare sul Frecciarossa, la metà del tempo abbarbicata al vano porta-valigie, all'impiedi, ché il treno era pieno.
L'ho letto sbuffando le due volte che ho dovuto interromperlo per scendere dal treno e andare a lavoro e portandomi dietro entrambe le volte la sensazione di consueta simmetria tra i miei pensieri e quelli di Dalila, tra le sue parole e quelle che io avrei voluto dire.

Alice nel paese dei call center è la storia di una ragazza italiana, quasi trentenne, laureata, che per campare, per essere autonoma e indipendente, si impone di resistere al contratto precario che la lega a un call center per sei mesi, temendo e sperando quando la fine del contratto si avvicina, combattendo contro i demoni che tutti quelli che fanno parte della mia generazione e si sono avventurati alla ricerca di un lavoro conoscono fin troppo bene: frustrazione, precarietà, senso di inadeguatezza, rabbia.

Io non ho mai lavorato in un call center. Per fortuna. Non ho mai sperimentato la realtà grottesca e spesso umiliante che racconta Dalila nelle sue pagine (e nei suoi post). Per fortuna.
Ma ecco.

Lo sforzo di chiedere i soldi ai genitori, quando un lavoro non lo trovi.
Il senso soffocante di sconfitta che ti assale, quando consideri l'eventualità di ritornare nella tua meridionale città di provincia, con le pive nel sacco, e insieme la sensazione di trovarti fuori posto ogni volta che ci torni per periodi più lunghi di un weekend e il pensiero che forse se fossi rimasta, se non avessi saputo cosa c'è fuori, nel bene e nel male.
La consapevolezza dell'inutilità di anni di studio, e fatica, e contemporaneamente la rabbia per non averlo capito subito, a vent'anni, cosa c'era nel mondo fuori. La voglia di gridare in faccia alle matricole: pensateci bene, ma bene davvero, al tempo che state spendendo (perdendo) in queste aule universitarie.
L'invidia per chi ha una vita programmata, un posto sicuro, una routine che magari l'annoia.

Tutto questo, con colori così vividi e contorni così netti, io lo conosco. L'ho vissuto. Ci ho fatto i conti spesso e bene.

Per questo credo che il libro di Dalila valga la pena di essere letto. Anche da chi - come me - non ha mai messo piede in un call center. Anche - soprattutto! - da chi non sa cosa significa fare parte di questa massa di giovani inadatti, troppo preparati o con troppo poca esperienza, troppo poco choosy, svalutati, immiseriti dal mercato del lavoro. Troppo grandi o troppo piccoli. Come Alice, che non riesce a passare dalla porticina e subito dopo annega nel suo mare di lacrime.

Perché bisogna provare a capire, ad immedesimarsi. Oppure a riconoscersi, a lasciarsi andare alla consapevolezza di non essere da soli.

Perché per persone come me e come Dalila, ostinatamente, le parole sono speranze.


[Il libro, se volete, lo trovate qui]

giovedì 11 dicembre 2014

Buona idea, Cattiva idea #10


Buona idea: Per evitare le code interminabili e la folla del weekend prenatalizio, decidere di andare al centro commerciale di martedì, alle nove di sera, per comprare qualche regalino.

Cattiva idea: Andare al centro commerciale di martedì, alle nove di sera, e per comprare un regalo fare una fila di mezzora perché la commessa ispirata deve confezionare un pacco che neanche gli aiutanti di babbo natale per la signora davanti a voi.

venerdì 5 dicembre 2014

Non luoghi, non io

Come immergersi in una piscina di yogurt, i tappi nelle orecchie e il formicolio alle punte delle dita delle mani e dei piedi.
Giù, con tutta la testa, ma con gli occhi aperti.
L'ovatta, tutto intorno. Riesci quasi a vederti da fuori. Un fischio persistente e lontano nelle orecchie, la sensazione che i limiti del corpo ci siano e non ci siano. Rarefatto, tutto.

E invece, sei in mezzo alla gente.
E invece, c'è il caos.

Non luoghi. Non io.

Succede a caso, di tanto in tanto.
Metti un piede sullo scalino della scala mobile, stai sulla destra, ti fai superare. Gente che ha fretta, che corre, e dovresti anche tu.
Pensi in un attimo: dietro ciascuno di questi individui c'è un mondo, una vita. Impossibile da rintracciare, non ora, non qui. Non luoghi, non io.

Pigiati nell'autobus, mentre gli ombrelli sgocciolano sui piedi di tutti e bagnano le cosce inevitabilmente attaccate. Odori senza nessun pudore, accavallati come nella più stretta intimità. Sembra quasi di vederti, appollaiata là in alto, mentre scruti tutta la scena come se non ti appartenesse, come se non ne fossi un pezzo anche tu. Chi, io? No. Non io.

E poi, di colpo, il vuoto.
Le otto di sera di un venerdì qualunque. La strada illuminata dai lampioni gialli, il riflesso nell'asfalto che moltiplica le luci per due. Nessuno cammina con te. Di colpo, hai spazio. Spazio. E respiri, rallenti i passi, ti godi ogni metro, ogni frammento di silenzio.
Se nessuno ti vede, tu non esisti.
Non esiste questo vuoto che non vuoi colmare. Non luogo, ancora, non io. Non tu.

Sei intermittente.
Accesa, spenta. Accesa, spenta. A mille, a zero. In quinta, in retromarcia. Fatichi un po', ammettilo.
Accesa, spenta.
Come le luci dell'albero di natale.
Lontano, vicino.
Toccare, abbracciare le persone. Sorridere.
Poi scrivere, tentare di spiegarti, come se fossi altrove, come se potessi trasferire tutti, di colpo qui.
Ancora un non luogo, ancora un non io.

Ritornare. Creare un post, dare un titolo.
Fare uno spazio e arredarlo.
Ti piace, stavolta, senza tappi nelle orecchie, senza yogurt di gente intorno, senza fretta.
Goderti il virtuale, assurdo non luogo che è qui.
Perché è un pezzetto di te.
Di me.
Di io.


venerdì 14 novembre 2014

Cose belle #5

Nell'arco delle due ore che separano la settimana lavorativa dall'inizio del weekend, succede che: mi consegnano tutti i regali della lista nozze, riesco a disfarmi del vecchio divano che dimorava in corridoio riducendo orrendamente lo spazio vitale, scopro che il compenso non di uno ma di due lavori fatti e finiti mi è stato accreditato sul conto e ho finalmente una mail ufficiale per la posta dell'ufficio. Ah, nel mentre, è venerdì sera.
;)


venerdì 7 novembre 2014

Ho scollinato

Ho scollinato.
E' venerdì sera, è il 7 novembre e io ho scollinato definitivamente.
Sapete quando camminate in salita, quella sensazione di agognare la cima per godersi il panorama e poter poi agevolmente ridiscendere, un piede dopo l'altro, caracollando giù per la discesa erbosa? Ecco.

Io sono lì.

Non so bene come ci sia riuscita, ma ho percorso una strada ripidissima, durante le ultime tre settimane, un sentiero puntellato di: responsabilità crescenti, appuntamenti sovrapposti, aspettative altissime caricatemi addosso, ansie da prestazione, impegni affastellati in agenda, scadenze improrogabili, straordinari non considerati. E magoni in gola per la sensazione di non farcela, o peggio, di fare brutta figura, di non essere all'altezza, di sentirsi male anche, di chiedere troppo a mente e corpo e cuore.

Eppure eccomi, ci sono, ce l'ho fatta.

Mi succedeva sistematicamente, appena dopo aver dato un esame all'università, ma qualcosa adesso è cambiato, qualcosa di fondamentale, di definitivo, di scomodo anche, che è: sono stanca.
Stanca di una stanchezza che, spiace ammetterlo, è anagrafica, prima di tutto.
Gna' fo' più come una volta.

Perdo capelli, il mal di testa è troppo frequente e troppo forte, mi addormento nel bel mezzo di una discussione fra amici, tendo a deconcentrarmi troppo facilmente.

E no, non è proprio possibile.
Quindi stop, ho scollinato.
Da oggi, anche basta.
Da oggi, voglio la mia routine autunnale fatta di tempo per lavorare e tempo per riposarsi, tempo per fare sport, tempo per comprare un divano nuovo più comodo, tempo per godersi la casa, tempo per specchiarsi.
Dio, neanche mi specchio più prima di uscire, tanto i minuti sono preziosi.

E poi ecco, un'altra cosa.
Devo impedire che accada di nuovo.
Già l'anno scorso ho scritto di novembre, del fatto che il suo essere penultimo mese lo fa automaticamente corrispondere ad un basso profilo, un cammino sotto traccia che però, per ciò stesso, autorizza a prendere decisioni senza l'ansia del capodanno, a farlo a cuor leggero, diciamo pure spavaldo.
Quindi questo è il mio fioretto per l'anno nuovo, che per me comincia da subito: devo imparare a dire di no.
Facile, dite voi?
No che non lo è. Non lo è se lavorare precariamente vi constringe alla costante, bruciante, maledetta sensazione di pensare sempre 'grazie', che mi stai offrendo un lavoro, 'grazie', per avere scelto me e non un altro, 'grazie', perché lavoro e mi paghi. E come corollario: ogni lasciata è persa. Quindi sì, sempre sì, comunque sì, che fai non lo fai? E se poi perdi questa occasione? E se non ti richiamano? E se e se e se... Basta.
No, grazie. Due parole facili. Ce la posso, ce la devo fare.

No, grazie. No grazie, no, grazie.
Come dice (per altri, più nobili, motivi) Cyrano de Bergerac.

Che poi, alla fine, sono brava.
Alla fine, le soddisfazioni, pure alla spicciolata, ma arrivano.
E allora chi se ne fotte del resto.
Chi se ne fotte di te, lettore maligno, che mi leggi e mi gufi contro per invidia o maldicenza.
Chi se ne fotte delle paturnie di troppo, della modestia, dell'anonimato.

Io no.
Io ho scollinato.
Io sto in cima, per ora, per oggi.

E la vista, di quassù, è bellissima.

 

sabato 25 ottobre 2014

La bizzarria del sabato mattina

Che entri alle 9 e mezza col tuo consorte nel negozio dove avete fatto la lista nozze per avere l'elenco definitivo dei regali e, a parte i commessi ancora insonnoliti, ci trovi Baricco col figlio, intenti a scegliere un'oliera.


mercoledì 15 ottobre 2014

Batto un colpo

Ci siamo, siamo tornati.
Ancora preda di un orrido jetleg che ci fa svegliare alle 5 di mattina arzilli e pronti a cominciare la giornata (salvo poi crollare alle 7 di sera), ma ci siamo.
Ci sono.

Ho voglia di raccontare tutto quello che ho visto, di provare a condividere anche solo un decimo della bellezza, dell'unicità della cultura con cui sono entrata in contatto, di scriverne qui e lo farò, lo farò, promesso.
Con un attimo di calma, che al momento proprio latita.
Però ecco, volevo battere un colpo per dire che sì, ci sono e riprenderò i contatti sociali anche con il mio amato mondo blogghereccio.

Nel frattempo, visto che l'avevo promesso...



:D


lunedì 29 settembre 2014

A cose fatte

C'è stato il sole.
Un sole che neanche a luglio, neanche nelle cartoline, figurati poi a fine settembre, a Torino.
Ho aperto gli occhi alle sei e mezza (la sveglia sarebbe stata mezzora più tardi), ho aperto la finestra e ho fotografato l'alba.

Tranquilla.
Con un'aura di beatitudine, di allegrezza sulla faccia, negli occhi.
Gente che bussa alla mia stanza, che mi saluta e sorride, gente che mi abbraccia, mi stringe emozionata.

Mi sono impigliata nel vestito da sposa.
Le braccia alte, l'acconciatura già fatta, il vestito bloccato per una cerniera che avevo lasciato tirata su.
Leggero smadonnamento.
Vabbè, passa.

Mi metto il velo.
Eh beh. Sono vestita da sposa. Sono una sposa. Guarda là.
E se mi viene da ridere?
Meglio.
Sì, meglio.

Quando scendo - non senza difficoltà - dall'auto e ti vedo, ti dico ciao, e la banda balcanica comincia a suonare io so che è tutto perfetto, tutto come me l'ero immaginato, mio padre mi guarda mentre avanziamo a braccetto ballicchiando a ritmo e mi dice è bellissimo.
Lo è, è bellissimo.

Ci teniamo per mano, mentre le parole scorrono, parole che hanno il potere di cambiare lo stato delle cose. Che bizzarra magia, questa.

Mi emoziona, questa cornice, ma tutti, tutti, sorridono, perché una cosa così non l'hanno vista mai.
Così allegra, bislacca, fuori dagli schemi, ironica. Così simile a noi.
Che cacchio se siamo belli, oggi.

Ho ballato - resistendo sul tacco tredici - come se fossi a un concerto in un centro sociale, ho fatto ballare grandi e piccoli, incrociando sguardi arresi: se te lo chiede la sposa non puoi dire di no. Figata.

Ho mangiato. Incredibile. Su qualcosa ho pure fatto il bis. Alla faccia di chi dice che gli sposi non mangiano mai al proprio matrimonio.
Ho bevuto, brindato con tutti i colori del vino, e tutte le gradazioni. Nel mio bicchiere e in quello di altri. Fino alla notte, fino a quando non abbiamo salutato tutti, ancora abbracci, ancora sorrisi.

Ho avvolto lo strascico intorno al corpo come un bozzolo per riuscire ad entrare nella tua auto, siamo tornati a casa nostra, che buffo fare le scale e salire in ascensore conciati così, ma tanto è notte, non ci vede nessuno.

Al letto mia madre e tua madre hanno messo le lenzuola che mia nonna mi ha regalato quando ero ancora una bambina, apposta per questa sera.
Mi sa che l'aveva immaginata tutta diversa, all'epoca. Vabbè.

A cose fatte, le cose nuove.
Come mi chiami e come ti chiamo,
i fiori dappertutto per casa
e quel bagliore di oro giallo che lasciamo muovendo le mani.


sabato 27 settembre 2014

Oggi mi sposo

Oggi mi sposo.
Dice, state insieme da dodici anni, convivete da cinque, che sarà mai?
Cosa ti cambia, nella sostanza?
Niente.
Davvero, niente.

È che questa stanza d'albergo, da sola, a quest'ora.
È avervi intorno, tutti quanti, in questa maniera caotica e polilocale, così rara, no unica, quando mai ricapiterá di nuovo così in una volta.
Sono i biglietti di auguri e quelle certe espressioni velate dalla commozione agli angoli delle ciglia.
È sapere che ci guarderete diversamente, ma anche che vi godrete con noi questa festa.
È che mi somiglia tutto, oggi, fino all'ultimo dettaglio, e io una cosa così anche giammai..

È salutarti e dirti buonanotte.
Domani io e te, maritoemoglie.
Niente.
Eppure qualcosa.
Eppure, dannazione, anche tutto.


martedì 23 settembre 2014

Siamo bravi

Siamo bravi, noi, a rendere morbide le sveglie.
Siamo bravi a lasciare il mondo fuori, a soffiare dentro inverosimili cerchi saponati e tuffarci dentro bolle fragili e luminescenti, che il resto faccia un po' ciò che vuole, noi restiamo qui.
Siamo bravi, quando capita, a creare trincee e fronti comuni: guai a chi prova a scalfirci. Che poi, noi e gli altri non ci incontriamo poi così spesso.
Siamo bravi a stare soli, perché io con te e tu con me non possiamo sentirci soli, mai.
E siamo bravi ad accenderci, a metterci in moto, a constatare quanto sei bravo tu da solo e a ricevere i tuoi occhi orgogliosi di me.
Siamo bravi ad aspettare, a trovare il tempo giusto, io che vorrei tutto e subito tu che invece anche dopo, fra un po', poi vediamo.
E alla fine facciamo cose, creiamo ambienti, inventiamo colori adatti e luci perfette.
Siamo bravi a prendere decisioni che ci investono come TIR impazziti sulla statale, a crogiolarci dentro l'ipotesi di come ciò che abbiamo immaginato si concretizzerà, e come gli altri ci guarderanno, ci considereranno bravi, io e te, insieme.
Siamo bravi, siamo meglio di prima, siamo potenziale ancora inespresso e storie da raccontare, ricordi da creare.
Siamo bravi a riconoscerci nelle illustrazioni colorate, a riconoscerci allo specchio, guardaci, siamo noi, ancora noi, non cambiamo,
aspetta,
fatti un po' più in là, fammi posto, anzi abbracciami, tienimi stretta, così, ancora un po'.


lunedì 15 settembre 2014

Cose da fare improrogabilmente a due settimane dalle nozze

Intraprendere una nuova, viva e vibrante dipendenza da serie televisiva.
[Confessare che la suddetta serie è Grey's Anatomy. Vergognarsi un po'.]

Andare al vivaio a comprare piante aromatiche, con la consapevolezza che per la prima metà di ottobre dovranno fare appello a tutto il loro istinto di sopravvivenza, visto che noi saremo dall'altra parte del mondo.

Insegnare a due amici ad andare in bicicletta, dopo averli convinti ambedue a comprare una bici usata a scatola chiusa.

Aggiungere scadenze lavorative a scadenze lavorative, l'ultima delle quali si stanzia bel bella a meno di 72 ore dal Grande Evento.

Ignorare cautamente - ma anche spavaldamente - che a giorni genitori e suoceri dimoreranno nello stesso sabaudo territorio.

NON incoraggiare la tentazione del refresh su ilmeteo.it

Passare molto tempo a leggere i blog altrui.


Come dite? 12 giorni?
Pfui! che sarà mai!

O_o


mercoledì 10 settembre 2014

Incubi prematrimoniali #3

La metà degli invitati non può venire poiché ha contratto il virus dell'ebola.
Alè.

[Combo: anche mia cognata ha cominciato a fare incubi sul mio matrimonio, per dire, stanotte ci sposavamo nel bagno di mia suocera... O_o]




sabato 6 settembre 2014

Lettera al pomodoro

Mio diletto,
come stai? Da tanto non ci vediamo, né sentiamo e il mio animo è straziato.
Mi manchi.
Lo so, è infantile, sdolcinato e perfino patetico dirlo, ma che posso fare: è così.
Immagino il tuo sapore croccante e acidulo spargersi sul mio palato, ti immagino lottare nell'impari lotta con la mozzarella (ti ricordi quella volta, a Capri?), ti vedo ancora cotto (innamorato!) scivolare giù per gli spaghetti, aggrappandoti solo ad una foglia di basilico.
E' troppo. Non ce la faccio.

Mi guardo intorno e sei dappertutto.
Nel panino al bar, nella conserva di mammà, nel ketchup - dio! nel ketchup!

E' un periodo difficile, sai? Sono debole, fragile.
Questo esilio mi costa tanta, troppa fatica.

Subisco gli attacchi incrociati di chi credevo mi volesse bene, almeno quanto gliene voglio io.
La melanzana, per dire, quella stronza.
L'ho vista pavoneggiarsi tronfia a mo' di caponatina mentre ero in vacanza a Palermo. Sfacciata.
E, alla faccia mia e della mia scarsa melanina, si è portata pure dietro a Torino i segni della grigliata. E la menta. E l'aceto balsamico.
Ma io niente, te lo giuro: impassibile. Una statua di sale.
Non si merita le mie attenzioni, se è tanto insensibile ai miei problemi.

Quell'altro poi, il peperone. Manco a dirlo, non mi degna neanche di un saluto. Come ogni anno si è rintanato a Carmagnola alla sagra in suo onore e niente: non mi ha neanche invitato. Ma forse è meglio così. Sì, forse i miei deboli nervi allora non avrebbero retto e sarei capitolata.

Una cosa invece, te la devo confessare, mio dolce, dolcissimo tesoro.
Alla fine l'ho fatto.
Sì, non mi rimproverare, te ne prego.
Ci hanno provato, il kamut e il farro, a tenermi lontana. La segale si è messa in mezzo di prepotenza.
Il riso, invece, si è messo a ridere. Lui lo sapeva che non ce l'avrei fatta.
Prima ha fatto lo stalker. Si è appostato sotto casa mia, con quella sua mollica invitante e quella crosta saporita; e ancora in spiaggia, travestito da tarallino alle olive. Poi è uscito allo scoperto, mi ha aggredita e non ho resistito al suo fascino. Ha sfoderato la sua arma segreta ed è arrivato così, con la sua veste migliore: morbida, lucida, dolce brioche. Ed ecco, l'ho fatto. L'ho fatto e l'ho rifatto, con la granita, col gelato, e ancora, e ancora, fino a sentirmi male.
No, non giudicarmi.
Ho provato a dimenticarlo uscendo di nascosto con due patatine, ma è stato peggio.
In fondo è colpa mia, è solo colpa mia: sapevo che anche loro mi avrebbero solo fatto stare male.

Tu sei il solo che può capirmi. Il tuo cuore (di bue) è gentile e la nostra relazione non teme le distanze.
So che mi aspetterai, come io sto aspettando te.
Sei maturo al punto giusto.
Io tornerò, tornerò presto.
E allora
sarà Passata.

Sempre tua
V.

[NdB: per un rapido aggiornamento, vedi qui al punto nove]


venerdì 29 agosto 2014

I(n)spirazioni

Periodo caotico, questo.
Sono tornata dalle vacanza calabro-sicule da 5 giorni e già mi sembra come se non fossi mai andata via dalla mia routine torinese fatta di pendolarismi, maniche lunghe, cene a due, telefilm.
E si aggiunge, sempre più insistentemente, quella luce nell'angolino dello schermo, luce che diventa via via più grande, mi dice 'eccomi, sto arrivando', manca un mese, 30 giorni, 29 - merda, ventinove giorni!
Milioni di briciole cui trovare un posto, pensieri come punte di spillo che rendono la mia testa un porcospino, scuoto i ricci e mi dico: non vedo l'ora. E subito dopo: manca troppo poco tempo.
Inspiro.
Vorrei trovare più spazi per scrivere, per leggervi, e più ci provo, più i giorni si ostinano a terminare in fretta nel sonno del dopocena, la routine a raccontarla mi sembra sciapa, senza guizzi, poco ispirata.

Inspiro e ispiro.
Dany mi ha fatto trovare un regalo del rientro:


Che se c'era una cosa che non mi aspettavo di essere, quella è 'ispiratrice'!
Quindi ecco, mi butto a pesce sul premio, di cui ringrazio moltissimo la suddetta blogger viaggiatrice (lei sì che ispira, con i suoi racconti di mondi vicini e lontani, così belli da far venire in un momento la voglia di fare le valigie e andare) e onoro le sue regole:

- ringraziare il/la blogger che ha generosamente dato il premio (fatto)
- elencare le regole e inserire l'immagine del premio (in progress)
- dire 7 cose che ti riguardano (ora, ora...)
- rimbalzare il premio ad altri 15 blogger (ehm, magari facciamo diversamente)
- inserire il logo del premio nel blog e seguire chi te lo ha dato (Dany già la seguo, il logo campeggia sulla mia mensolina dei premi!)

Ecco le sette ciarliere bizzarrie che mi riguardano:

Uno: mi sto per sposare (come se non lo sapeste...). Dopo dodici anni di fidanzamento, di cui cinque di convivenza, ho chiesto al consorte (in barba a tutte le tradizioni e a tutti i film americani) di convolare a laiche, laicissime nozze.

Due: ho una serie di manie ossessivo-compulsive del tipo: l'ordine dei piatti, dei bicchieri e delle tazze nello sgocciolatoio, la maniera di rifare il letto (con riga e compasso, dice il consorte), i passi necessari a salire una rampa di scale...

Tre: in una vita precedente volevo fare la filologa romanza. Ci ho provato eh, ma il mondo accademico non mi è piaciuto e io non sono piaciuta a lui, quindi la mia strada mi ha portato verso il lavoro di bibliotecaria (che adoro!)

Quattro: conosco a memoria il ventiseiesimo canto dell'Inferno di Dante (quello di Ulisse).

Cinque: Ho la patente (che sta pure per scadere!!), ma guido pochissimo, solo quando torno in patria in Calabria e neanche sempre... qui a Torino sono ecosostenibile: mi muovo in bici e/o con i mezzi pubblici. Ma un proposito del prossimo autunno è imparare a guidare qui, fra viali e controviali.

Sei: ho una famiglia bizzarra... i miei genitori e i miei zii si sono accoppiati a tre a tre: due sorelle e un fratello di una famiglia con due fratelli e una sorella di un'altra famiglia, quindi io e i miei cugini abbiamo tutti gli stessi nonni e, paradossalmente, i miei genitori sono quasi cognati. E' stato un trauma, per me e per tutti noi 'figli' loro, scoprire alle elementari che le altre famiglie non funzionavano così!

Sette: adoro svisceratamente Italo Calvino. Qualunque suo romanzo, racconto, articolo, saggio per me è oro colato. Nessuno come lui sa rispecchiare il mio modo di vedere il mondo e di approcciarmi a chi mi sta intorno. O forse, è proprio grazie a lui che ragiono e agisco in questo modo.

Ecco, ora dovrei nominare 15 blog: troppi e troppo pochi! Facciamo così: visto che praticamente tutti i blog che seguo sono per me 'ispiratori', consideratevi tutti premiati e, se volete, lasciate nei commenti un elenco di sette cose che non so di voi...

E bentornata a me...


venerdì 8 agosto 2014

Dieci ottime ragioni

Uno: il succo di pera
Il succo di pera - light - aperto, assaggiato con una smorfia di disappunto nell'accertare che ha un terribile, terribile sapore, è il solo superstite all'interno del frigo, visto che consapevolmente non facciamo la spesa da dieci giorni.

Due: il relatore e il diluvio
Che potrebbe benissimo essere il titolo di una puntata di Game of Thrones (tipo 'L'orso e la fanciulla') e invece è ciò che ha popolato i miei incubi durante l'ultima settimana: riincontrare il mio relatore di tesi ed essere trascinata via da un diluvio stile Noè (quest'ultimo, peraltro, drammaticamente vicino alla realtà di ieri sera)

Tre: gli operai delle fogne
Gli operai delle fogne, insieme a rari ed inquietanti esemplari di nerd non italiani con sandali e calzini, accomunati tutti da un indecoroso afrore di piedi al formaggio, sono stati gli unici altri abitanti del Politecnico di Milano (dove ho il mio ufficio) in questi primi giorni di agosto.

Quattro: le foto del mare
Tutti voi, che siete al mare, che sguazzate dal 2 di giugno, che fate foto all'alba, ma anche al tramonto, e perché no al pomeriggio, foto tutte indistintamente caratterizzate dalla presenza costante e sfacciata del mare jonico, tirrenico, adriatico, ligure, caraibico, oceanico.

Cinque: l'appuntamento
Lunedì alle dieci e mezza del mattino. Per la prima prova dell'abito da sposa.

Sei: le piccole donne
La più piccola, la caloabroumbra che fra pochi giorni compie dieci mesi e non la vedo - diomio - da marzo. E le due più grandi, le siculofemmine già abbronzate che mi faranno da damigelle e hanno un sacco di arretrati da raccontarmi.

Sette: la casa nuova
Dei miei ventotto anni e mezzo, diciassette li ho passati in una casa, i restanti sono stati costellati da ritorni in quella stessa dimora, almeno a natale e ad agosto, ma in verità ogni volta che è stato possibile. Quella casa non mi vedrà più, ce n'è un'altra, neoacquisto genitoriale, fresca di vernice ai muri e di mobili appena montati, con le sue travi a vista, il suo soppalco, il suo odore ancora sconosciuto.

Otto: la provola
Non c'è bisogno di altre spiegazioni.

Nove: lo stress metabolico
In farmacia ho ritirato gli esiti del biotricotest per i disturbi alimentari. Risultato: sono stressatissimissima (ma va'?), il mio corpo gna fa' più e pensa di essere sempre sveglio tipo delirio a Las Vegas, non mi riposo abbastanza e anche quando dormo in effetti non recupero. In più sono intossicata e devo eliminare: pomodori, patate, melanzane, peperon(cin)i e - respiro profondo - farina di frumento (leggi pane, pasta, pizza, biscotti). Per due mesi. Aiutatemi.

Dieci: il tempo
Tempo. Tempo per stare distesa a guardare le mosche ronzare e le cicale frinire. Tempo per leggere. Tempo per stare con i miei parenti e i miei amici.
Tempo per non lavorare.

Ecco.
Dieci ottime ragioni per cui, da adesso, sono in vacanza.
Tante care cose a tutti!


sabato 2 agosto 2014

Stagnante

Come di tuoni che susseguono ininterrotti da circa tre ore, un lampo ogni tanto, ma senz'acqua, senz'acqua ancora, come di questa luce si può dire.
Stagnante e senza peso.

Guardo questo sabato ed è agosto. La luce artificiale accesa alle 18 e 58. Bizzarro.
Mi beo nel lieve brivido che si sviluppa sul braccio glabro, seduta davanti alla finestra.

Stagnante.
Da piccola amavo i temporali estivi, mi stendevo sulla sdraio, davanti alla finestra aperta, con un lenzuolo a coprirmi fin sotto le ascelle e un librino in mano. Per rito, era sempre Romeo e Giulietta, la riduzione per bambini.

Ho tempo.
Incredibile.
Scivolo sulle ore lentamente, placidamente, risacco come le onde dell'alba o del tramonto, quelle senza sole e senza gente.
Me le godo.

Se si alza il vento vuol dire che qualcosa di turbinoso sta per venire giù.
Ma è l'attesa che adesso mi piace.
Attesa calma, stagnante.

Più tardi, domani, fra una settimana, fra un mese, tutto sarà frenetico e pieno, tutto andrà veloce, turbinerà e avrò bisogno di ombrelli e impermeabili.

Ma non ora.
Ora no.
E' vertigine sottile quella che mi obbliga a restare distesa sul letto, ancora altri cinque minuti.
E' epicureo, pigro, gattesco nullafare.

Il silenzio.
Picchietta, adesso, sul vetro.
L'attesa è finita.
Il mio sabato lento e leggero ancora no.

Resto.
Ferma.
Soddisfatta.
Quieta.
Stagnante.


sabato 26 luglio 2014

Buona idea, Cattiva idea #9


Buona idea: il venerdì, dopo il lavoro, trattenersi a Milano per un aperitivo piuttosto alcolico e godersi la sensazione alticcia dovuta a quattro prosecchi e un margarita.

Cattiva idea: il venerdì, dopo il lavoro, trattenersi a Milano per l'aperitivo organizzato dal capo, che si rivela molto alcolico, ed essere inopportunamente alticci a causa di quattro prosecchi e un margarita.

[Pessima idea: il capo è molto, molto più alticcio di voi.]



martedì 22 luglio 2014

Sono sette

Ti vengo a prendere a Termini, col motorino.
Intanto, mica facile salirci, scavalcando il bauletto, dall'alto del mio metro e cinquantotto.
Ma vabbè, caracollo, ci sei? Ci sono.

Sampietrini, sempre loro. Stravolti, sbreccati e slivellati. Sobbalzo.
Via Marsala, via Milazzo, viale dell'Università - ma quel ristorante da quando c'è? - la Sapienza - mo' c'è pure il parcheggio interno? - via De Lollis, il Verano che si spampina dopo il semaforo.
Sono le dieci e mezza di un venerdì sera qualunque e Roma non sa che la guardo con occhi sorridenti, accesa com'è nella sua afa, nei suoi turisti, nei rumori consueti e nuovi.
Come sempre, mi era mancata.

Metti poi un vino da finire.
Metti un letto da condividere.
Metti una prospettiva, grande quanto un borsone da 48 ore scarse.

Poche ore di sonno.
Tanta la voglia di rivederle, ci sono quasi tutte.

Sette, sono sette.

Con cinque condivido il dialetto e la destinazione delle vacanze di Natale e d'estate.
Con due i ricordi di aule universitarie e di aneddoti bislacchi, il punto di partenza di tre strade diverse.
Con quattro le mura di una casa da fuorisede, i primi passi da romana, la familiarità nel parlare pure della cacca.
Con due i banchi di scuola, la memoria quattordicenne, la tentazione di nasconderla, la certezza di riconoscersi sempre, vuoi o non vuoi, tali e quali.

Tre di loro hanno fidanzati o compagni, in quattro ne hanno avuti di importanti e hanno detto loro addio, quattro sono single e ce la fanno benissimo.
Due abitano da sole e hanno comprato casa, quattro la condividono con fratelli o sorelle, una convive e ha due cani. Una ha un gatto.
Tutte lavorano, incastrano impegni-persone-passatempi.

Queste femmine hanno la effe maiuscola.

Ho un velo posticcio attaccato a un cerchietto; trova posto anche lui, nel borsone risistemato per la ripartenza.
Fiumicino e già mi mancano, dannazione.

Ripenso che basta poco, basta niente e sembra quasi - quasi - come non essere mai andata via.
La verità è
che vorrei avervi più spesso, amiche mie.


domenica 13 luglio 2014

Cose belle #4

Sapere che il Circolo dei Lettori di Torino ha organizzato un picnic a tema Alice in Wonderland e scoprire di avere in casa tutto l'occorrente per andarci vestita da Stregatto.



lunedì 7 luglio 2014

Da sola

Mi chiedo, nel dormiveglia insofferente dei crampi allo stomaco, alle 4 del mattino: ce la farei, da sola?

Da sola, senza quel calore e quel respiro di fianco a me, senza le due tazze sulla tavola della colazione, senza l'archivio condiviso della musica e delle foto: ce la farei?

Mentre si approssima come il treno del celeberrimo primo film al cinematografo la scadenza in cui dirò sì, ecco sì, da oggi in avanti, ma anche ieri, facciamo i passi insieme, mi chiedo: ma senza scherzi, io, da sola, ce la farei?

Ce la farei ad accettare il silenzio della casa e la catena di altre cose con cui popolare una vita, un lavoro, un'esistenza nel mondo?

E riuscirei a non perdermi, a non inabissarmi nell'horror vacui, a bastare a me stessa, realizzata, singola identità, monade felice e soddisfatta?

Mi chiedo, non cadrei forse nell'apatia dei sentimenti, nella disillusione più bieca, nella nebbia di un'assenza di progetti condivisi?

O forse no? Forse avrei bisogno di tutto questo per dire: ecco, questa sono io, io da sola, valgo per me stessa e tanto basta, splendo, rifulgo, vivo, a prescindere da, nonostante.

Ci penso, rigirandomi e scontrando i miei piedi con i suoi, mi dico, d'istinto:
No.

Non ce la farei, da sola.
E' debole, questa femmina che parla?
E' incerta sulle piante dei suoi piedi?
Traballa?

Forse.
Si appoggia, non ad ogni passo, ma con la consapevolezza che il sostegno c'è.
Come le rotelle della bici che in realtà neanche lo toccano, l'asfalto.

Mi chiedo, mi domando, penso:
ce la farei, da sola?

No.

Ma servo, servo anch'io.
Sostegno uguale e contrario, per quel respiro - che ci respiro a fianco - per quel calore - che rinfresco e lenisco.
E questo equilibrio, questa bilancia degna di Minerva io, signori miei, non la cambierei con nulla al mondo.
Non per un'isola in cui vivo da sola, neppure per una corona da imperatrice dell'autostima e dell'autogestione.

Mi chiedo: ce la farei da sola?
Non ce la farei.
Non voglio farcela.


martedì 1 luglio 2014

mercoledì 25 giugno 2014

Alexanderplatz, aufwiedersehen...

Posto numero 5: Franco Battiato (ancora lui) - Alexanderplatz

No, non è per mancanza di fantasia.

Ti vedo stanca hai le borse sotto gli occhi
come ti trovi a Berlino Est?
Alexanderplatz aufwiedersehen
c'era la neve
faccio quattro passi a piedi
fino alla frontiera: 

vengo con te

Berlino ve la racconto senza foto.

Berlino non è Londra, Parigi o Roma, non ha maestose storie antiche o cartoline barocche, non ha fasti secolari, o se ce li ha li tiene sottotraccia, ballerine di fila, devi sporgerti molto e allungare il collo per vederli.

Berlino ha due ombre giganti e scure, come sciarpe sotto al cappotto.

La prima si chiama nazismo.
Lunga, eclatante ombra di catrame, orrore senza filtro, documentato.
Pesantissimo masso ereditato da portare al collo. Una colpa che, fra le mille spine appuntite, causa anche quell'ingiusto pregiudizio nei confronti di una lingua che tanto è bella quando è sussurrata, tanto diviene gracchiante e totalitaria negli slogan degli anni trenta e quaranta, nelle scritte in fraktur, nei messaggi radiofonici del Fuhrer.
I berlinesi non nascondono il nazismo. Non ci provano neanche. Hanno capito saggiamente che l'unico modo per affrancarsi da questo avo scomodo è dichiararsi il più cristallinamente possibili alieni, mostrare tutte le sfaccettature - anche le più triviali - di un fenomeno di massa assurdo, sbagliato, terribile, costoso.
Il nazismo fa schifo, va rinnegato, te lo faccio vedere chiaramente.

La seconda ombra si chiama muro.
E più che un'ombra è una nebbia grigiastra, lattiginosa, che si annida negli angoli, che salta fuori in rivoli che fanno tossire e arrossire.
Il muro - quello che ne resta - è sottile, non alto.
Lo guardi e ti chiedi: come diavolo è possibile.
Come è possibile che questa bobina di cemento che sembra così dannatamente fragile sia stata in grado di fare e rappresentare e condizionare la vita di esseri umani così tanto, per così tanto.
Ma il muro non c'è più, è caduto. Quasi 25 anni fa.
25 anni fa io avevo 4 anni.
Per i tempi della Storia, praticamente è stato ieri.
E forse questo è il problema.
I berlinesi non parlano del muro. Fanno finta che non ci sia, forse che non ci sia stato.
Non so se è stata una mia impressione - probabilmente sì - ma ho percepito come la tentazione di dimenticarlo, di nasconderlo come polvere sotto il tappeto, di dire: distruggiamolo definitivamente e che non se ne parli mai più.
Forse - ho pensato - è ancora troppo presto.
Forse il trauma è troppo recente, non si riesce a mettere bene a fuoco da questa distanza ravvicinata.
Camminavo per la strada e guardando le persone di mezza età mi dicevo: loro c'erano, loro l'hanno vissuto.
E come fanno?
Come fanno a non raccontarlo, a non parlarne?

Berlino è malinconica, nonostante tutto.
Nonostante le efficienze nordicissime, i mezzi puntuali e frequenti, le piste ciclabili, la raccolta differenziata, la civiltà tangibile.
Malinconica e piena di scudi: se piove la gente non usa l'ombrello, l'acqua le scivola addosso, prima o poi si asciugherà.
Non è un problema.
Prima o poi passerà.
Qualunque cosa.

Ci vediamo questa sera fuori dal teatro
Ti piace Schubert? 

 

venerdì 20 giugno 2014

#Soundintrip, prima di andare via

Ho letto il post de La Folle e questa idea mi è piaciuta da morire!
Ho letto che il colpo di genio è stato di dm, blogger viaggiatrice che seguo appassionatamente.
Quando ho cominciato a scrivere questo post, ho intravisto quello analogo di Lila che mi ha anticipato di un gnente, ma non le voglio male per questo, anzi: non sentiamoci mainstream, ma meravigliosamente concordi negli intenti.

L'idea è questa: 5 canzoni per 5 viaggi, musiche che hanno l'effetto della madelaine proustiana, note che quando le senti inevitabilmente ti riproiettano nel passato, a un viaggio verso un altrove, con qualcuno, con qualcosa da ricordare.

Poiché assecondare la vena nostalgica è sempre una tentazione irresistibile e poiché sto per partire per una minivacanza, decido di farlo anch'io, questo #soundintrip, e vediamo che ne esce...

1. Luna di lana - Valeria Rossi
Agrigento, Luglio 2003. Un'auto torrida in viaggio da Palermo con i finestrini abbassati, dentro 4 scapestrati - fra i quali la me stessa neodiplomata - tanti succhi di frutta e merendine al cioccolato irrimediabilmente sciolte. Davanti la prospettiva di un tuffo nel Mediterraneo ghiacciato e di una mega brioche col gelato alla Gelateria Le Cuspidi.

2. Occhi bassi - Tre allegri ragazzi morti
Non è proprio la colonna sonora di un viaggio. O forse sì, visto che associo questa canzone al mio trasferimento a Roma, nel settembre del 2003. A un cd che mi ha accompagnato sul treno e ha scandito i passi dei primi giorni verso le aule universitarie.

3. Franco Battiato - Bandiera bianca
Uno qualunque dei tanti viaggi autostradali Torino-Umbria fatti col consorte per andare a trovare mio fratello. Ma quanto ci piace cantare le canzoni di Battiato imitandone la voce...

4. Talco - La danza dell'autunno rosa
A parte che questa canzone è spettacolare e se non la conoscete vi invito caldamente ad ascoltarla, associo questa musica (e direi anche l'intero album) al viaggio verso Londra di giugno dell'anno scorso, sparata a palla mentre vedevamo avvicinarsi l'aeroporto.

5. ...
Il quinto posto lo lascio vuoto, perché sto per partire.
Stasera sarò a Berlino per un luuungo weekend (w san Giovanni, patrono di Torino) e non so ancora quale musica, quale canzone farà da didascalia acustica a questo nuovo trip.

Facciamo che ve la dico quando ritorno...
;)


mercoledì 18 giugno 2014

martedì 10 giugno 2014

Simone si sposa

Ho conosciuto Simone il primo anno di università. 
Correvo da un'aula all'altra, preda della voglia di conoscere argomenti che mi apparivano bellissimi e persone che potessi, finalmente, scegliere io, non imposte dalla mia città, dalla mia scuola, dal mio nome.
Era - mi sembra - il corso di Glottologia e, come succede, ci siamo trovati. Visti e piaciuti.
Avevamo intorno uno straordinario puzzle di altre persone bislacche e capate una a una nel nugolo degli iscritti a lettere, ma fèrmati, Simone era diverso.
Con Simone è diventata una simbiosi.
E no, non una di quelle che si trasformano in una tresca: io già ero innamoratissima del consorte (che dimorava quegli 800 km più a sud) e lui, beh lui zigzagava qui e lì.
Io e Simone eravamo fratello e sorella, lui che era figlio unico e io che un fratello ce l'avevo, ma troppo più grande di me, e ancora troppo diverso e distante.
Prepariamo il piano di studi.
Studiamo per l'esame.
Facciamo il the.
Vieni a casa mia, apri la finestra per fumare, disturba le mie coinquiline.
Cantiamo a duetto le canzoni di Guccini, andiamo al mare a Ostia dopo l'ultimo esame di luglio.

Ci sei quando tentenno, ci sono quando urti contro gli spigoli del tuo carattere.

Per cinque anni, Simone è stata la persona con cui ho trascorso più tempo in assoluto.
Eravamo bravissimi, senza storie.

E poi succede come succede. Che le strade si biforcano e i percorsi si scelgono, divergenti, differenti.

Altre città, altre cose da fare, sogni da inseguire.

Ho salutato Simone che è ormai cinque anni fa, non l'ho più visto.

E così, come succede, succede anche di vivere sorprese e di aprire la porta a sorrisi inaspettati.
Come quando Simone ha lasciato un commento qui, sul mio blog.
Come quando, una briciola ogni tanto, una parola o due, sapere che c'è, sempre uguale, e sempre uguale io, e sotto sotto, noi.

Sai cosa? C'è che mi sposo, a settembre.
Sai cosa? Mi sposo anch'io, a giugno.

Dai.
Vieni? 
Sì.

T'ho rivisto, Simone, felice, stremato, innamorato, ambientato in un luogo che è diventato casa tua, anche se non è Roma, e certo: nessun posto è Roma. T'ho rivisto e non abbiamo avuto il tempo di riconoscerci, se non al volo, col non detto, con la promessa che poi.

Chi lo sa.

Ma sì. Certo che sì.
In altri modi, con altri tempi, e parole, e scenografie non condivise, magari.
Ma so che sei lì, ancora tu, ancora facile da riconoscere,
amico mio.


domenica 1 giugno 2014

Ridatemi la cattiva

Ieri sono andata al cinema.
Anzi no: ieri sono andata prima a vedere una riduzione di Romeo e Giulietta allestita da tre pazzi scriteriati nel cortile di un condominio di San Salvario (esperienza che meriterebbe un post a sé) e poi sono andata al cinema, a vedere Maleficent.
Ora. 
Se come me siete personcine che hanno avuto un'infanzia sana e costruttiva e quindi conoscete a menadito tutti i classici Disney, ivi compresi tutti i testi di tutte le canzoni, da Impara a fischiettar di Biancaneve a Il mondo è mio di Aladdin, fatevi un favore, salvatevi almeno voi: non andate a vedere Maleficent.
Perché quello che farete sarà cominciare a saltellare sulla poltrona del multisala, circondati da nanetti che sgranocchiano popcorn, con sempre maggiore insofferenza nei confronti di ciò che scorre sul megaschermo e sempre maggiore varietà linguistica di imprecazioni pronte a uscire fuori di bocca (e anche, diciamocelo, sempre maggiore invidia nei confronti della bocca della Jolie).

Mi rivolgo a te, amico sceneggiatore Disney.
Spiegami perché.
Cosa non ti è chiaro.

Numero uno: stai prendendo una storia che è patrimonio collettivo della memoria di tre o quattro generazioni di giovani virgulti cartonianimati-dipendenti per farne un remake. Anzi no, non è un remake, perché se mi pubblicizzi il film dandogli per titolo il nome della protagonista cattiva di quella storia, io mi aspetto di trovare, non so, il prequel? La storia vista dal punto di vista di quel personaggio? Il sequel? Qualcosa del genere, e invece... Ma non anticipiamo, e diciamo solamente che vuoi partire da quella storia, da quel pacchetto di memoria, per raccontarmi qualcosa, conscio del fatto che io SO come sono andate le cose nel cartone originale, ME LO RICORDO BENISSIMO.
Quindi, amico mio, stai giocando col fuoco, lo devi sapere, parti già sul filo del rasoio.

Numero due: Questa storia in particolare vive in un cartone che è fra i più inquietanti mai prodotti dalla Disney (lasciando da parte gli elefanti rosa di Dumbo che non gareggiano, sarebbe come se Usain Bolt partecipasse alla mezzamaratona Venaria-Torino). Io non so se voi che leggete avete presente, ma la Malefica del cartone è una cattiva al 100%, senza sfumature, cattiva perché sì, cioè per dire, ogni volta che c'è lei tutte le scene si tingono si un mefitico verde acido che copre tutti gli altri colori e parte una musichetta che Profondo Rosso lèvate.

Numero tre: Il personaggio di Malefica a me piace da matti. Gli è riuscito proprio bene. Perché non solo è cattiva senza speranza, non solo grazie a lei la storia si impenna, si evolve, si risolve, ma perché riesce ad essere completamente negativa e allo stesso tempo enormemente bella. E' regale, Malefica, è elegante, si muove con genti lenti e solenni, accarezza il suo corvo - che chiama 'mio Diletto', manco fossimo in una poesia trobadorica - come se fosse il più tenero dei gattini, insomma sta spanne e spanne sopra a tutti gli altri personaggi: ad Aurora, che è solo la vittima passiva degli eventi; al principe Filippo, muto bambolone wannabe-Ken, nonostante l'epilogo dovuto e aspettato; alle tre fate buone, sciocche buontempone impacciate, salvabili solo per la diatriba sul colore del vestito della principessa ('che sia rosa'/'che sia blu').

Questo per dire che il contesto e l'aspettativa quando ho comprato il biglietto erano belli panciuti e tesi tesi, pronti a godersi, se non proprio la stessa storia vista dal punto di vista dell'antagonista, almeno l'antefatto: chi è Malefica e perché arriva ad essere tanto cattiva quando cominciano gli eventi raccontati nel classico Disney.
E invece no, amico mio. Hai voluto sgravare.
Hai voluto fare un triplo carpiato e riscrivere la storia invertendo le parti: Malefica è buona, è una fata che ama la natura e che solo temporaneamente si ritrova imbevuta di una sete di vendetta che le fa scagliare il maleficio su Aurora, maleficio che lei stessa dopo un po' tenta invano di togliere, e non vi dico altro sennò spoilero troppo.

Amico mio, sceneggiatore stipendiato della Disney, provo a farti un disegnino?
Ripeti con me: Ma-le-fi-ca. Nomen omen, nelle fiabe più che mai! Non devo certo scomodare mazzi di Umberti Echi per dimostrarti che c'è un errore gigantesco nella tua malsana idea narrativa! Non puoi, amico mio, non puoi, raccontarmi con scioltezza che una tizia che si chiama Malefica è buona! Lo capisci che non puoi?

No, non lo capisci... e infatti mi hai costruito un castellone cinematografico che non ha senso alcuno, anche perché - caro amico laureato al DAMS della Columbia University - lo sa pure un ragazzino di undici anni che se mi prendi un picco di negatività, poniamo un -1, e me lo vuoi far diventare un picco di positività, diciamo un 1, il risultato che hai è ZERO. Calma piatta. Elettrocardiogramma a bip contonuo. Insomma una storia che non ha slanci emotivi, non ha senso, non ha catarsi. Non ha.

Anzi. Ha.
La beffa finale.
La frase che davvero non volevo sentire.
"Questa è la storia vera, non quella che conoscevate voialtri".

Ennò.
Amico stronzo, no. 
La mia memoria, il mio bagaglio culturale dell'infanzia non si tocca, andatevene tutti a quel dannato paese buonista, fatto di lieti fini zuccherosi e identità incerte e edulcorate.
E ridatemi la cattiva.


giovedì 29 maggio 2014

Piccole cose

Che di cose piccole si vive.
Di dettagli luminosi che si fanno avanti nel grigio della ripetitività.

Di piccole cose piccole.
Momenti, che ci ripensi l'attimo prima di addormentarti e l'angolo della bocca si curva all'insù.

Basta niente.

La tua collega di ufficio che il lunedì mattina ti regala un libro senza la scusa di un'occasione, così, perché l'ha visto e ti ha pensato.

Il quarto d'ora di sonno, distesa sul prato del parco, alle due di pomeriggio di sabato, in lontananza solo i vecchietti della bocciofila che si sono dati appuntamento per giocare.

Il brivido nel provare che effetto fa avere la fede al dito.

Venti persone molto più grandi di te che si complimentano per la bella lezione che hai tenuto (e per la quale non hai dormito per diverse notti).

Tua cognata che, prima di partire, ti ha piegato tutti i sacchetti del carrefour a forma di triangolino e ora non si incastrano più nell'ultimo cassetto.

Chiamare per chiedere 'vieni a cena stasera da me?', sentirsi rispondere 'ma certo!'

Regalarsi una manicure con lo smalto rosso semipermanente, bellissimo.

Piccole cose piccole.
Nonostante la fatica, la stanchezza, la rabbia, le delusioni per tutto il molto altro che accade,
io
preziosamente
resto a galla

e sguazzo.



venerdì 23 maggio 2014

Quattro mesi, quattro giorni

E poi.

E poi...

E poi - Annunciazione, Annunciazione - squillino le trombe, rullino i tamburi, cantino i galli e scoppino i fuochi d'artificio,

poi, carissimi tutti, CI SPOSIAMO!



:)



lunedì 19 maggio 2014

Buona idea, Cattiva idea #8



Buona idea: Partecipare alla Mangialonga di Albugnano e godersi una soleggiata domenica di maggio all'aria aperta.

Cattiva idea: Partecipare alla Mangialonga di Albugnano e, grazie alla soleggiata domenica di maggio, riportare come souvenir un'invidiabile abbronzatura da muratore.


giovedì 8 maggio 2014

Cose belle #3

La tua prof di italiano delle superiori che ti manda un messaggio su Whatsapp con le foto dei 'Principia Philosophica' della Scuola filosofica che avevi fondato in terzo liceo con altre quattro inguaribili cazzare come te.
E la conferma che sei sempre stata e che continui ad essere un'inguaribile cazzara, come a quindici anni.




sabato 3 maggio 2014

La casa del nonno

La casa del nonno ha il campanello che trilla fortissimo e con lo stesso rumore assordante squilla il citofono, quando qualcuno arriva.
La casa del nonno ha pavimenti di graniglia diseguali, anni 60, e porte che scricchiolano, che quando le chiudi si sente il vetro, malamente incastrato nella cornice di legno, che vibra. Un vibrare diverso per ogni stanza. Se sei lontano, riesci a riconoscere quale porta si apre, quale si chiude, grazie a quel suono.
La casa del nonno ha mobili tutti diversi, e poltrone pesanti di uno strano marrone retrò.
Ha una vetrina bellissima, dentro ci sono servizi da the, da caffè, servizi di bicchieri di cristallo col filo d'oro, coppe da champagne che lo champagne non l'hanno mai visto.
La casa del nonno ha la nonna, che sbuca silenziosa dagli angoli, una presenza leggera e costante.
Come il ricordo che mi porto dietro, io piccola, piccola tanto, a stento ricordo i suoi occhiali, la sua sedia a rotelle, la sua voce.

La casa del nonno trasuda mio nonno, che l'ha abitata per più di vent'anni da solo.
I quadri storti.
I tappeti inchiodati al pavimento, così non si muovono.
Lo scotch che ripara ogni cavo elettrico, ogni manico di padella usurata.

Se alzi un oggetto qualunque ci trovi un post it.
'Alla nipote Valeria'.
'Al figlio'.
'Alla nuora'.

Esorcismi precisi.
I pensieri netti, senza sfumature, del maresciallo della forestale.

Mio nonno non c'è più da quasi due anni.

E' morto e io ho chiesto: 'E' stata una morte veloce, indolore?'.
Che questo era quello che mi importava.
Mio nonno ha vissuto tantissimo, era l'ultimo dei miei nonni.

La casa del nonno. Non ci ho mai camminato con tanta familiarità.

Nel bagno c'è un mobiletto di legno con un cassetto. Lo apro. Ci trovo biglietti di auguri da parte di tutta la famiglia. Per Natale. Per gli 80 anni. Per i 90.

La casa del nonno ha una stanza più piccola delle altre, dentro c'è un baule gigante, di quelli con gli angoli rinforzati in metallo.
Il baule che apro e sprigiona l'odore pungente della canfora, quello più acre del chiuso.

I gesti lenti, rituali.
Il mio vestito della comunione.
L'abito da sposa di mia madre.
Il mio corredo.
Lenzuola ricamate, asciugamani, tovaglie di fiandra, copriletti tessuti al telaio.

Il nonno e le nonne, lì dentro, mi hanno vista già grande.


lunedì 21 aprile 2014

Mangia, l'ho fatto io

Dalle mie parti il cibo è un segno di affetto.
Se cucino per te, vuol dire che ti voglio bene.
Se mangi quello che io ho cucinato, vuol dire che mi vuoi bene.
Più ci vogliamo bene, più cuciniamo e mangiamo.

Le donne, dalle mie parti, cucinano da dio. Di conseguenza - o di premessa - vogliono bene come pochi sanno fare. Incondizionatamente e in modo totalizzante.

Vivo lontana dalla mia terra da tantissimi anni ormai, ma più passa il tempo più la mia identità ancestrale ha voglia di venire fuori. Anche a 1300 km di distanza, anche se qui non c'è il mare e non c'è la stessa salsa di pomodoro.

Io: Pasquepasquetta fa brutto, restiamo a casa.
Consorte: Ok.
Io: Faccio gli gnocchi.

Cugina emigrata neotorinese: allora che cuciniamo a pasquepasquetta?
Io: Io faccio gli gnocchi. E la parmigiana di melanzane.
Cugina emigrata neotorinese: Ottimo. Io faccio la crostata di ricotta al caffè e cioccolato. E la secre con la mundicata [bietola saltata in padella con mollica di pane e parmigiano. NdB]. Ma quanti siamo?
Io: Mh... Quest'anno sono tutti partiti... Siamo noi tre.
Cugina emigrata neotorinese: Allora porto anche il mio hard disk da enne Terabyte e ci spacchiamo di film. Ma puoi chiedere a tua madre la ricetta della crostata?
Io: Ok, ok.

Il corollario del teorema di partenza Cibo = Amore è questo: Indipendentemente dal numero di commensali, tu cucina sempre per dodici-quindici.

Io: Mamma, mi serve la ricetta degli gnocchi. E della crostata alla ricotta.
Mamma: E che ci vuole? Una fesseria. Per gli gnocchi... quanti siete?
Io: siamo tre.
Mamma: Due chili e mezzo di patate rosse basteranno. E 500 g di farina.
Io: O_o
Mamma: Per la crostata.. blablabla... il caffè 'a occhio'... blabla... per la consistenza ti regoli... blablabla... il forno a 180°, anche 200°, vedi tu. Che ci vuole?
Io: Vabbè... inutile chiedere dosi più precise, vero?
Mamma: Vero.

Che poi l'identità ancestrale viene fuori quando meno te l'aspetti...

Io: Ha patate rosse?
Fruttivendolo: Sì, quante gliene servono?
Io: TRE chili.

Il passaggio dell'eredità culinaria è qualcosa di prezioso, di solenne, quasi di sacro.
Se sei una donna del sud, cucinare i piatti della tua tradizione familiare è una specie di rito di passaggio, una sorta di iniziazione alla vita adulta.

Mamma: e com'erano gli gnocchi?
Io: buoni... ne sono avanzati metà...
Zia L. (mamma della cugina emigrata neotorinese, di sottofondo): domani li scalda e sono ancora buoni, ma nel forno, non in padella!
Mamma: sì però finiteli, che dopo due giorni la patata va a male

Un'ora dopo

Mamma: e com'era la crostata?
Io: non l'abbiamo ancora aperta... siamo ancora sazi dal pranzo...
Mamma: ah... noi stiamo mangiando lo zuccotto di ziaelisa, è buonissimo.
Ziaelisa (di sottofondo): ma poi il pandispagna [la cui ricetta le avevo chiesto un mese fa] è venuto buono?
Mamma: com'era il pandispagna?
Io: buono, buono.
Mamma: e stasera?
Io: stasera cosa?
Mamma: stasera che mangiate?
Io: O_o
Mamma: domani restatine? ['avanzi' NdB]
Io: Veramente faccio la parmigiana. E la frittata agli asparagi.
Mamma: ah, brava, brava. Al limite quello che avanza lo surgeli.

Il freezer è la panacea a qualunque tsunami gastronomico calabrese.
Il freezer, congiuntamente alla grappa, alla tisana al finocchio, alle sane dormite.

In letargo, come il pitone, che dopo aver mangiato digerisce in sei mesi.

A me, avere alle spalle dieci ore di sonno ininterrotto, per affrontare la pasquetta mi sembra un buon inizio.


lunedì 14 aprile 2014

Elogio della leggerezza

Essere seri stanca.
Avere sempre un aplomb integerrimo, la coerenza dei giusti, l'etica di un comportamento senza macchia.
Vivere nell'iperuranio delle verità pe(n)santi, sempre ad arrovellarsi sul perché e sul per come dei massimi sistemi.
Dimostrare giorno dopo giorno di essere affidabili professionisti e esseri umani civilissimi, cittadini partecipanti, sempre pieni di opinioni su ogni cosa.
Motivare tutto.

Cheppalle.

Ci vuole, ogni tanto, una sana, catartica mandata a quel paese di tutto ciò.
Impacchettare, legandoli ben stretti, i principi, la profondità, gli intellettualismi infilarli in un baule con destinazione Timbuctu (cit.).
Lasciarsi andare.

Possibilmente, saltellando.
Possibilmente, anzi, obbligatoriamente, ridendo a più non posso.

Ho passato, fra venerdì e sabato, 24 ore fra le più bislacche e divertenti della mia vita.

Che succede che arriva il venerdì pomeriggio e già pregusti la pausa del finesettimana, assapori l'arietta frizzantina, ti scarichi in piscina a più non posso, conscia che il bello deve ancora arrivare.

Partiamo, io, il consorte, la cognata in visita, per un ridente paesino nel novarese, per assistere (ma il verbo è invero troppo statico) a un mega concertone ska, inizio alle 23 e 30, conclusione alle 3 del mattino. Tre ore e mezza di musica in levare e molleggiamenti, testi cantati conosciuti da più di dieci anni e altre melodie inedite, spunti per future conoscenze musicali.
La gente che ho intorno è allegra.
Allegra e basta.
Ma quanto è bello?

Torniamo a casa con l'usuale fischio nelle orecchie, un bicchiere rubato del bar che ancora spande l'odore della fetta di limone per tutto l'abitacolo, e il ghiaccio sciolto, e la cannuccia nera.

Nel letto alle 4, col sorriso ebete di chi sa che cosa succederà, poche ore più tardi.

Ve lo ricordate quando vi ho parlato, un annetto fa, del Torino Comics?
E vi ricordate che avevo concluso dicendo che forse forse, magari magari, per l'edizione successiva avrei fatto un pensierino sull'idea di improvvisarmi cosplayer fra i cosplayers?

Che dire... l'ho fatto!
Sono diventata un Minion!! Anzi, per la precisione, io e altri quattro scapestrati (fra cui il consorte e la cognata di cui sopra) siamo diventati un gruppo di Minions meravigliosi!

Per chi, folle, non li conoscesse, i Minions sono questi:


Eh sì, avevamo anche le banane.

Ma la gente che ci ha fotografato.
Ma la capacità di dire addio alla vergogna, alla serietà, alla pesantezza, alla serie infinita di cose da fare e da pensare e da organizzare e da considerare.

La bellissima, bellissima sensazione di sentirsi insieme, nell'ordine: un personaggio dei cartoni animati, una celebrità, un pezzo di un bislacco gruppo di esaltati, un bambino.

Dimenticarsi del mondo reale.
Vivere la coloratissima, divertententissima espaerienza di cinque ore di festa, fuori da ogni regola.

Sentirsi così meravigliosamente leggeri.
E senza fiato spanciarsi dal ridere!



giovedì 10 aprile 2014

Dimmi cosa sogni...

Il ponte altissimo di una nave da crociera, me stessa sdraiata su un lettino a prendere il sole, la borsa poggiata sul tavolino di fianco a me.

Il capitano, reggendo il timone (?), mi si rivolge con una certa urgenza:

- scusi signorina, per l'Abruzzo?

La nonchalance, la sicurezza di google maps:

- giri subito qui a sinistra!

Virata improvvisa di 90°.
La borsa caracolla.
La borsa contro la forza centrifuga.
La borsa perde, scivola giù dal tavolino, giù lungo il ponte inclinato in curva, si dirige pericolosamente verso la ringhiera dell'altissima nave da crociera, la supera, scompare.
Pluff.

Lo sguardo inerme, inebetito, disperato.

Subito dopo, il risveglio.

Ho bisogno di una vacanza.

venerdì 4 aprile 2014

Manifesto



Oggi non lavoro, oggi non mi vesto
resto nudo e manifesto


Ho deciso di anticipare il weekend.

Ho mal di denti, quindi sono giustificata. Ah, non ce n'è bisogno, non siamo a scuola?
Va bene.

Sono fuori dal coro, nettamente diverso
le mode se ne vanno, io resto! E manifesto!


Perché non ho voglia di fare. Non ho voglia di vestire, di dimostrare, di portare prove a sostegno di.
Sono stanca. C'ho la stanchezza nella cervicale e nelle occhiaie.

Penso a meno stress e più farfalle
meno chiacchiere alle spalle


Più leggerezza, ci vuole. Meno pretese, cacchio. Meno bisogni inenarrabili di vedere le cose che vanno secondo una logica - la mia - che non fa sconti, che si basa su: lealtà, gentilezza, trasparenza.
Non succede? Sticazzi.
Resto nuda e manifesto.

Resistenza passiva al grigiume che mi vuole invadere.
Mi sono sbocciati i narcisi nel vaso, dannazione, non me lo posso permettere.

Contro ogni occasione persa
i calci di rigore sulla traversa


Capita a tutti di non avere visuali diritte verso l'orizzonte, no? E se capita anche a me, che male c'è? Dico, che male c'è? Posso avere anche io la possibilità di aggiustare la mira prima di tirare in porta? Posso imparare a farlo pure io, che c'è gente che lo fa da una vita e riesce a galleggiare beata vendendo fumo?

Oggi guardo il cielo

Non sembra primavera, è vero, ma tant'è. Anche il meteo stavolta non può farci nulla. E se mi va di ballare, se mi va di cantare, se mi va di roteare come una scema e godermi un tempo che non devo a nessuno, oggi lo faccio.

Faccio un gesto, e manifesto.







lunedì 31 marzo 2014

Malgrado me

Non comincio mai un nuovo post senza avere prima scelto in titolo.
Stavolta invece.

Non scrivo da tanto, da troppo forse, certamente da troppo se il mio fosse uno di quei blog organizzati nei quali puoi star certo di trovare un nuovo articolo ogni tre, massimo quattro giorni. Che poi magari nei mesi scorsi è anche stato così. Ma ora no, almeno, per ora no.

Ieri sera avevo un peso sull'anima.
Uno di quei macigni esistenziali che non sai come spiegarti e che ti tengono in ostaggio dalle sette di sera in avanti.

Sarà la primavera.
Sarà il cambio dell'ora.
Sarà la domenica.

Saranno tutte queste scuse e altre ancora, più futili e più banali.

Ieri sera ho aperto la finestra e ho sentito odore di pesce grigliato.
Il che, in un condominio torinese a fine marzo, è almeno strano.

Con l'odore ancora nel naso ho inghiottito più aria possibile cercando di fare luce sul mio magone.

Che cos'hai?
Niente.
Non lo so.
Insofferenza.
Paura.
Tachicardia.

Ho provato a descriverlo a parole, mentre mi stava a sentire.
Ho detto quel paio di frasi che in testa mi girano da un po' e con vividissima lucidità mi si ripresentano a notte fonda, peggio della peperonata, e non mi fanno dormire.
Quel paio di frasi che, per pudore e per qualcos'altro che forse capirete, non scriverò qui.

E' strano come mi basti poco per alleggerirmi.
Mi basta un dialogo, qualcuno che ascolti, che mi risponda, che mi prenda per mano.
Beh, no, non qualcuno così, a caso.

Non che abbia risolto gran che, ma la serata ha preso a girare diversamente, più fluida, meno grumosa, se per grumo riuscite a visualizzare quel blocco in gola, quel peso sul cuore.

Devo smetterla di pensare che basto a me stessa. Ho bisogno di
parole
presenza
comprensione
aiuto
sostegno

Di sapere che tutto andrà bene, in un modo o nell'altro.
Di sapere che posso prendere direzioni scegliendole, che gli eventi possono piegarsi in base al mio modo di agire.

Ho aperto gli occhi dopo sogni strani con indiani e metropolitane affrescate.
Mi sono alzata che è lunedì e io... beh io ancora un frammento di magone me lo porto dietro.
Cercando, mio malgrado, di addomesticarlo come non so fare.


venerdì 21 marzo 2014

La Nuova

Quando ero bambina amavo le videocassette, ne avevo una collezione sterminata che andava dai classici disney ai film che dava in allegato l'Espresso con qualche mila lire in più sul prezzo di copertina.
Fra le tante raccolte, ce n'era una particolarmente ben fatta dedicata agli spettacoli teatrali dei comici più in vista degli anni novanta: Giobbe Covatta, Gioele Dix, i primissimi Aldo, Giovanni e Giacomo e Antonio Albanese.
Ecco, Antonio Albanese. Il suo spettacolo intitolato 'Uomo' l'avrò visto decine di volte e ogni volta mi scatafasciavo a terra dalle risate. Un mito, un genio. Citavo a memoria pezzi interi dei monologhi dei suoi personaggi, adattissimi a chiosare le più disparate situazioni.

Perché metti - per dire - che torni sfatta a Torino dopo una giornata di lavoro.
Metti - per dire - che riemergi dalla stazione sotterranea di Porta Susa contenta di poter finalmente pedalare agilmente verso casa e stravaccarti sul divano in meno di un quarto d'ora.
Metti - per dire - che vaghi cercando la tua amata dueruote fra gli archi delle rastrelliere con la faccia sempre più inebetita perché non riesci a trovarla.
Metti - per dire - che realizzi che te l'hanno beatamente fregata.

Niente.
Non c'è niente.
Vuoto.
Nulla.
Deserto.

Alex Drastico si impossessa di te.



Maledicendo l'universo mondo conosciuto e sconosciuto, declamando con filologica puntualità tutti i calendari di qualunque sistema cronologico presente, passato e futuro, badando di dare la priorità ai santi tutti, alle feste comandate, agli angeli e agli arcangeli, me ne sono tornata a casa a piedi.

Tristezza e amarezza.

Dopo 4 anni di onorato servizio, l'ho dovuta rimpiazzare in men che non si dica con il primo usato disponibile, ché senza bici ho le gambe tagliatissime.

E così è arrivata in cortile la Nuova.

La Nuova è un catorcio bello e buono. La vernice neanche se la ricorda più, zero portapacchi, zero cestino, zero luci. Quando pedalo fa tipo: tatatractaciunf tatatractaciunf. Però va eh, ruote revisionate e freni ottimi.
Il venditore me l'ha classificata nella specie di 'bici da ferrovia': quelle che le puoi lasciare dove ti pare, che manco i ladri le vogliono. 
Sospetto fortemente che il lucchetto valga di più della bici stessa.
Ma tant'è non voglio dover piangere di nuovo, se dovesse risuccedere di non trovarla più.

E tuttavia almeno un dettaglio, un optional, una briciola di lusso, un po' come il volante in pelle umana dentro a una fiat 126 dell'82, ho voluto regalarglielo, così, per benvenuto.

Sarà pure un rottame, la Nuova, ma che si sappia: ha un campanello fashionissimo!



mercoledì 12 marzo 2014

Mi lascio abbagliare da gif animate e domande che mi vengono sottoposte

Gira da un po' questo loghetto colorato nei blog che bazzico mentre viaggio sui soliti miei treni e la domenica mattina pisolosa... Lo ammetto: ero alquanto invidiosa di chi lo aveva ricevuto e, giulivo, si apprestava a rispondere alla lista di domande le più varie su casa, famiglia, nomi, cose, città, lettera e testamento.

Tutto ciò fino a quando l'ottima Kate, alias Bionic Girl, non mi ha incluso nella selezione dei suoi Liebster Blog!



Oh gaudio!
Oh tripudio!
Oh vanagloria dei sensi!

Mi sento così



Per cui, bando alle ciance, rispondiamo - ormai mi do il plurale maiestatis come il Divino Othelma - alle dieci quaestiones dedicatemi dalla bionica fanciulla!


1. Quale odore ti fa ricordare l'infanzia?
Senza dubbio l'odore del vapore del ferro da stiro. Mi fa ricordare i pomeriggi di quando avevo 5 o 6 anni, passati a casa di mia nonna che stirava guardando Ok il prezzo è giusto e la Ruota della Fortuna

2. Se dovessi descriverti attraverso un quadro, quale opera sceglieresti e perché?
La Maya vestida di Goya. Perché le somiglio un po' e non ho - ma vorrei avere - la sfacciataggine di diventare desnuda.

3. Sole o pioggia?
Normalmente direi pioggia: mi affascina e mi dà un senso di protezione... ma stranamente quest'anno non vedo l'ora che arrivi la primavera per avere più luce.

4. Una persona che ti sprona o ti ha spronato ad essere un essere umano migliore.
Mia Ziaelisa. Si legge tutto attaccato, con il dittongo alla latina. Mi leggeva le favole da bambina, mi ha insegnato a leggere e ad amare la letteratura da adolescente e a cercare il buono in ognuno, come ha fatto lei con tutti i suoi alunni per tutta la vita.

5.Il film che più ti ha inquietato o segnato a vita.
"Lanterne rosse", un film cinese lentissimo e dal contenuto scabroso che ho visto la prima volta a 9 anni: mi ha fulminato, l'ho adorato e rivisto non so quante decine di volte.

6. Hai un incubo ricorrente?
Sì, ritornare alla scuola di danza che ho frequentato fino a 16 anni (ne ho parlato qui)

7. Il posto che ti fa sentire un puntino immerso nell'infinito.
Il mare di casa, nel Golfo di Squillace, e anche piazza San Pietro a Roma

8. Hai delle cicatrici?
Svariate! Ma sottolineo quella sul naso, souvenir imperituro della varicella del 1991, e una fra pollice e indice della mano destra, risultato di una maschera da sub tramutatasi inspiegabilmente in un machete

9. Un oggetto di cui non potresti fare a meno.
Mmmh... direi l'anello di mia madre che porto al medio sinistro da 16 anni

10. Il libro che ha cambiato la tua visione del mondo.
Questa è facile: "Palomar" di Italo Calvino (e chi sennò?)


E ora tocca a me! Vediamo che vi tiro fuori dal cilindro...

1. Qual è l'ora più bella della giornata?
2. La cosa che non manca mai nel carrello della spesa
3. Il costume di carnevale più imbarazzante della tua vita
4. Il posto più brutto che tu abbia mai visto
5. Avrai un oggetto trash, ma davvero davvero trash... ecco, dimmelo!
6. Se potessi cambiare il tuo nome di battesimo lo faresti? E con quale altro nome?
7. Sei fan sfegatato di qualcosa/qualcuno?
8. Quanto manca alle prossime vacanze?
9. Una cosa bella che hai visto oggi
10. Sputeresti cordialmente in faccia a...

Dovrei, a mia volta, indicare una decade di blogz cui riassegnare il premio, ma visto che molti di voi l'hanno già ricevuto, visto che peraltro non saprei scegliere, visto che lo spirito con cui l'ho accettato io è principalmente quello gallinesco di poter fare l'intervistata, e visto - in ultimo -  che lo so che siete tutti dei pennuti pettegoli quanto me, decido e decreto, per l'autorità conferitami da blogger.com, di concedere a chiunque vorrà di rispondere alle mie domande e anche a pormene di nuove, così da intessere una catena sempre più fitta di bottaerisposta completamente priva di qualsivoglia senso che non sia il vicendevole e ciarliero diletto.

Troppe subordinate, sì, davvero troppe.