lunedì 29 dicembre 2014

Cose belle #6

Festeggiare l'arrivo del tuo compleanno insegnando a tuo suocero a fare tequila-sale-limone.



domenica 21 dicembre 2014

Capisci di essere invecchiata quando...

... Realizzi che tu andavi al cinema a vedere Titanic e intanto nascevano quelli che fra poco prenderanno la patente e avranno diritto di voto.

O_o


lunedì 15 dicembre 2014

Alice nel paese dei call center

E' stato più o meno un anno e mezzo fa quando per la prima volta sono entrata nel blog di Dalila: Le mie prigioni (Silvio Pellico stava meglio). Ricordo che per me era un periodaccio, una di quelle curve negative della sinusoide dell'umore che testardamente si ostinava a durare tanto, ma tanto.
Ho sbirciato dalla finestra di Dalila e ho trovato un'anima affine alla mia. Una sorta di transfert di freudiana memoria, quella sensazione che ti fa dire: guarda, siamo uguali. Dalila lavorava in un call center e raccontava la sua tragicomica esistenza professionale in post agrodolci, spesso malinconici, sempre ironici. Quello che ci voleva, in quel momento, per me.

Ho continuato a leggere le sue evoluzioni - e continuo tuttora - perché sempre, come quella prima volta, mi succede di riconoscermi nelle sue parole e nei suoi stati d'animo, nonostante non ci conosciamo davvero, viviamo in posti differenti, abbiamo storie diverse.

Succede che Dalila ha scritto un libro. Io l'ho comprato, subito. E l'ho letto.

Torino-Milano, Milano-Torino, Torino-Milano. Ci ho messo tre tratte da pendolare sul Frecciarossa, la metà del tempo abbarbicata al vano porta-valigie, all'impiedi, ché il treno era pieno.
L'ho letto sbuffando le due volte che ho dovuto interromperlo per scendere dal treno e andare a lavoro e portandomi dietro entrambe le volte la sensazione di consueta simmetria tra i miei pensieri e quelli di Dalila, tra le sue parole e quelle che io avrei voluto dire.

Alice nel paese dei call center è la storia di una ragazza italiana, quasi trentenne, laureata, che per campare, per essere autonoma e indipendente, si impone di resistere al contratto precario che la lega a un call center per sei mesi, temendo e sperando quando la fine del contratto si avvicina, combattendo contro i demoni che tutti quelli che fanno parte della mia generazione e si sono avventurati alla ricerca di un lavoro conoscono fin troppo bene: frustrazione, precarietà, senso di inadeguatezza, rabbia.

Io non ho mai lavorato in un call center. Per fortuna. Non ho mai sperimentato la realtà grottesca e spesso umiliante che racconta Dalila nelle sue pagine (e nei suoi post). Per fortuna.
Ma ecco.

Lo sforzo di chiedere i soldi ai genitori, quando un lavoro non lo trovi.
Il senso soffocante di sconfitta che ti assale, quando consideri l'eventualità di ritornare nella tua meridionale città di provincia, con le pive nel sacco, e insieme la sensazione di trovarti fuori posto ogni volta che ci torni per periodi più lunghi di un weekend e il pensiero che forse se fossi rimasta, se non avessi saputo cosa c'è fuori, nel bene e nel male.
La consapevolezza dell'inutilità di anni di studio, e fatica, e contemporaneamente la rabbia per non averlo capito subito, a vent'anni, cosa c'era nel mondo fuori. La voglia di gridare in faccia alle matricole: pensateci bene, ma bene davvero, al tempo che state spendendo (perdendo) in queste aule universitarie.
L'invidia per chi ha una vita programmata, un posto sicuro, una routine che magari l'annoia.

Tutto questo, con colori così vividi e contorni così netti, io lo conosco. L'ho vissuto. Ci ho fatto i conti spesso e bene.

Per questo credo che il libro di Dalila valga la pena di essere letto. Anche da chi - come me - non ha mai messo piede in un call center. Anche - soprattutto! - da chi non sa cosa significa fare parte di questa massa di giovani inadatti, troppo preparati o con troppo poca esperienza, troppo poco choosy, svalutati, immiseriti dal mercato del lavoro. Troppo grandi o troppo piccoli. Come Alice, che non riesce a passare dalla porticina e subito dopo annega nel suo mare di lacrime.

Perché bisogna provare a capire, ad immedesimarsi. Oppure a riconoscersi, a lasciarsi andare alla consapevolezza di non essere da soli.

Perché per persone come me e come Dalila, ostinatamente, le parole sono speranze.


[Il libro, se volete, lo trovate qui]

giovedì 11 dicembre 2014

Buona idea, Cattiva idea #10


Buona idea: Per evitare le code interminabili e la folla del weekend prenatalizio, decidere di andare al centro commerciale di martedì, alle nove di sera, per comprare qualche regalino.

Cattiva idea: Andare al centro commerciale di martedì, alle nove di sera, e per comprare un regalo fare una fila di mezzora perché la commessa ispirata deve confezionare un pacco che neanche gli aiutanti di babbo natale per la signora davanti a voi.

venerdì 5 dicembre 2014

Non luoghi, non io

Come immergersi in una piscina di yogurt, i tappi nelle orecchie e il formicolio alle punte delle dita delle mani e dei piedi.
Giù, con tutta la testa, ma con gli occhi aperti.
L'ovatta, tutto intorno. Riesci quasi a vederti da fuori. Un fischio persistente e lontano nelle orecchie, la sensazione che i limiti del corpo ci siano e non ci siano. Rarefatto, tutto.

E invece, sei in mezzo alla gente.
E invece, c'è il caos.

Non luoghi. Non io.

Succede a caso, di tanto in tanto.
Metti un piede sullo scalino della scala mobile, stai sulla destra, ti fai superare. Gente che ha fretta, che corre, e dovresti anche tu.
Pensi in un attimo: dietro ciascuno di questi individui c'è un mondo, una vita. Impossibile da rintracciare, non ora, non qui. Non luoghi, non io.

Pigiati nell'autobus, mentre gli ombrelli sgocciolano sui piedi di tutti e bagnano le cosce inevitabilmente attaccate. Odori senza nessun pudore, accavallati come nella più stretta intimità. Sembra quasi di vederti, appollaiata là in alto, mentre scruti tutta la scena come se non ti appartenesse, come se non ne fossi un pezzo anche tu. Chi, io? No. Non io.

E poi, di colpo, il vuoto.
Le otto di sera di un venerdì qualunque. La strada illuminata dai lampioni gialli, il riflesso nell'asfalto che moltiplica le luci per due. Nessuno cammina con te. Di colpo, hai spazio. Spazio. E respiri, rallenti i passi, ti godi ogni metro, ogni frammento di silenzio.
Se nessuno ti vede, tu non esisti.
Non esiste questo vuoto che non vuoi colmare. Non luogo, ancora, non io. Non tu.

Sei intermittente.
Accesa, spenta. Accesa, spenta. A mille, a zero. In quinta, in retromarcia. Fatichi un po', ammettilo.
Accesa, spenta.
Come le luci dell'albero di natale.
Lontano, vicino.
Toccare, abbracciare le persone. Sorridere.
Poi scrivere, tentare di spiegarti, come se fossi altrove, come se potessi trasferire tutti, di colpo qui.
Ancora un non luogo, ancora un non io.

Ritornare. Creare un post, dare un titolo.
Fare uno spazio e arredarlo.
Ti piace, stavolta, senza tappi nelle orecchie, senza yogurt di gente intorno, senza fretta.
Goderti il virtuale, assurdo non luogo che è qui.
Perché è un pezzetto di te.
Di me.
Di io.