sabato 31 ottobre 2015

Le cose che amo di Torino/Autunno

La sfacciataggine con cui la natura decide di fagocitare l'urbano, regalandomi colore e stupore.




venerdì 16 ottobre 2015

Come stai?

Come stai?
Come sto? Che domanda... Come sto... Dipende, ecco, dipende, oggi per dire 'no schifo, ieri 'no schifo un po' di meno, due giorni fa alla grande. Va così.

Come stai?
Sto in bilico, tanto per cambiare. Equilibri instabili, solita storia. Abituarcisi mai.
E' che forse c'ho il baricentro più alto, da un po', e tendo a caracollare più facilmente.

Come stai?
Bah... Che vuoi che ti dica. Da due mesi guardo dritto davanti a me, senza sbirciare i piedi, chi si ferma è perduto. O è caduto, peggio. Non è lecito cadere, non si può. Bisogna. Restare. In piedi. Pilastri. E sì, alla fine sono stata brava, alla fine mi sembra di aver resistito bene.
Ho fatto tutto da sola.
Che bambina grande.

Come stai?
Sì ma tu chi sei? Chi sei tu, che me lo stai chiedendo? No perché mi sa che sei solo una voce nella mia testa, sei solo un'eco della mia voce. Come sto? Tanto vale che me lo chieda direttamente da sola.
E' questo il problema. Chiederselo da soli. Darsi una risposta sufficiente, esaustiva. Capire cosa c'è che non va, rimpicciolire il problema fino a farlo scomparire, o forse solo fino a renderlo minimo abbastanza da nasconderlo dietro a qualche sinapsi. Razionalizzare e reagire. Razionalizzare e metabolizzare. Ti piacciono queste parole, eh? Passerà. Passerà tutto e tornerai come prima.

Come stai?
Che poi succede che qualcuno te lo chiede davvero, come stai? Ed è come essere un castello di carte in mezzo alle correnti d'aria. Succede che crolli e non te lo aspetti. Succede che crolli quando meno te lo aspetti. E basta un niente.
Non ero così, io non ero così. E allora come è possibile che adesso.. Davvero volete convincermi del fatto che non è indolore questo meccanismo? Che mostrarsi incrollabile ti rode dall'interno come le termiti? Che non posso dominare le mie reazioni emotive?

Come stai?
Magari starei meglio, se me l'avessero chiesto di più, come stai? Sono arrabbiata, arrabbiata col mondo. Magari starei meglio, sarei meno satura, più lucida, se non avessi dovuto fare tutto maledettamente da sola, se l'intuito degli altri fosse arrivato a capire che bastava chiedere, come stai? E magari ascoltare. Magari farmi parlare un po' di più.

Mi manca la sicurezza dei rapporti profondi.
Il poter dire: parliamo. Lo sfogo. La lentezza di farmi ascoltare. E mi manca anche il racconto degli altri, le confidenze. Che sono qui. Parlatemi. Sono qui.
Dov'è che sbaglio?
E' il tempo?
E' il mio carattere? Sembro spocchiosa? Sarcastica? Superiore? Cosa?
Fatemi capire.
E capitemi, maledizione.

martedì 14 luglio 2015

Allosanfàn

Che il genere umano trova conforto nel ricondurre le proprie casualità a ordini precostituiti e coincidenze più o meno artificiali.

E chi siamo noi per dissentire?

Allosanfandelapatrì, duecentoventisei anni fa cantavano i rivoluzionari alle porte della Bastiglia.
Che poi forse, boh, magari cantavano poco, erano troppo impegnati ad ammazzarsi l'un l'altro per conquistar la liberté, magari il tempo per cantare l'hanno avuto dopo, a cose fatte e metabolizzate.

Quattordici luglio. Mi sa che da oggi diventerà un giorno rosso anche sul nostro personalissimo calendario.

C'è chi assalta la Bastiglia e chi, più timidamente, firma e firma e firma ancora fino a quando, ecco, è fatta: la casa è vostra.

Commozione, un velo di panico, la mano che beh, che vuoi farci, trema ancora un po'.

Il giorno della gloria è arrivato.

Unicredit ringrazia, Lady Oscar mi può spicciare casa.
Nostra.
Nuova.
:)


mercoledì 8 luglio 2015

Cose belle #9

Una vaschetta di gelato artigianale pistacchio e stracciatella con due cucchiaini, il tentativo di ignorare l'afa delle undici di sera e lo zapping sulle emittenti locali piemontesi che ti regala a sorpresa il concerto di Gianni Drudi.


martedì 30 giugno 2015

A come

A come Attesa.
Aspetta. Aspetta. Non parlare subito, non ancora, non adesso. Domani, magari. Domani sarà più reale. Domani parlarne non sembrerà antiscaramantico. Adesso aspetta, sopporta, aspetta.

A come Apnea.
Inghiotti più aria che puoi. Di più. Un po’ di più. Dai, che ce la fai. Inspira e trattieni. Gonfia le guance. Diventa bluastra, se è il caso. Non cedere. Passerà, sta già passando. Ecco, è passata. Anche questa. Intravedi la luce, laggiù, in lontananza?

A come Acqua di mare.
Quella l’hai vista, di sfuggita, un pomeriggio di metà giugno. Il tuo mare. C’era vento e faceva addirittura freddo, ma imperterrita hai voluto sentire quella certa familiare sensazione di sabbia fra le dita, quel certo consuetissimo rumore ripetitivo di vaevieni salmastro. Perché? Perché quest’anno, chissà, forse tornerai, o forse no.

A come Affittasi.
Che impressione che fa. Tornare a casa e vedere il cartello attaccato al portone. Affittasi. Ce ne andiamo. Cerca di non farti prendere dal panico, mentre monti gli scatoloni e impacchetti la tua vita. Cerca di contenere il magone all’idea che questa non sarà più casa tua. Casa vostra. Perché ce n’è un’altra adesso. Più grande, più luminosa, più bella. Più vostra.

A come Autunno.
Vuoi che arrivi presto. Quando sarà autunno tutto comincerà ad essere più consueto, più riconoscibile. Non vedi l’ora, già, non vedi l’ora di inaugurare plaid e divano, accartocciandoti di fronte alla parete color cioccolato. Non vedi l’ora che sia l’ora di comprare un nuovo albero di natale. Non vedi l’ora di costruire nuove, differenti tradizioni e aspettare l’anno dopo, e quello dopo ancora, per riviverle daccapo. Non vedi l’ora di invitare tutti quelli che conosci, di mostrare loro gli angoli e le luci, e i panorami. Le Alpi, di nuovo, finalmente.

A come Adesso.
Il momento giusto. Il luogo giusto. Dice che si riconosce, quando la vedi. Che la senti tua, appena ci entri. Anche se intanto ci sono altre vite, già piene e corpose, ad abitarla. E’ strano. Io non ci credo a queste cose. Eppure. Ci sono dettagli che sono come segnali. Come arrivarci davanti in auto e trovare facilmente posteggio. Come l’ascensore spazioso e luminoso. Come il parco di fronte intitolato a Falcone e Borsellino. Come il nome della via, che ti fa immaginare mentre dici con malcelato orgoglio intellettuale: abito in via Leopardi.

Respira, adesso. Espira, inspira, espira di nuovo. Lo puoi dire. Lo puoi rendere reale.
A come Alla fine.
Appena prima di salutare giugno.


domenica 17 maggio 2015

Buona idea, Cattiva idea #12


Buona idea: memore dell'esperienza dell'anno passato, partecipare alla Mangialonga di Albugnano ricordandosi di spalmare di crema protettiva viso e braccia

Cattiva idea: memore dell'esperienza dell'anno passato, spalmare saggiamente di crema protettiva viso e braccia e dimenticarsi di collo e spalle, rimediando pertanto un grazioso décolleté pannaefragola


lunedì 11 maggio 2015

Di intermittenze e di morte

E' lunedì. Questo già basterebbe.

E' lunedì e ho i capelli lisci. Li ho tagliati sabato, la parrucchiera ottimista mi ha fatto i boccoli con il ferro, son durati due ore a essere buoni, ora c'ho il caschetto. Ma stasera li lavo, eh.

E' lunedì, ho i capelli lisci e fra due ore rinnovo la patente scaduta sette mesi fa. Questo dovrebbe significare che ho l'intenzione di ritornare a guidare, o almeno, di ritornare a prendere confidenza con le 4 ruote, cosa che non faccio da almeno un paio d'anni. Bella l'ecosostenibilità, belli i mezzi pubblici che funzionano.

E' lunedì, ho i capelli lisci, fra due ore rinnovo la patente e alla posta è arrivato il seggiolino da pendolare comprato una settimana fa, quello che tieni in borsa e all'occorrenza sfoggi sul treno saturo e contrario a qualsivoglia norma di sicurezza, lo apri e ti siedi, magari pure nel vagone dove c'è l'aria condizionata. Expo dimmerda, ormai non si trova posto manco a pregare in turco-aramaico.

E' lunedì, ho i capelli lisci, fra due ore rinnovo la patente, alla posta è arrivato il seggiolino da pendolare e ho appena finito il libro di Saramago intitolato "Le intermittenze della morte". Manco a dirlo, capolavoro. Saramago non delude mai e ho pure quel certo senso di colpa per il fatto che ancora questo suo non l'avevo letto, nonostante sia di un po' di anni fa, nonostante lui sia morto già da cinque anni, dannazione.
Parlare della morte non è una cosa facile. Quando poi decidi di farne il personaggio, la protagonista di una narrazione, la difficoltà si amplifica, perché prova a mettertici, nei panni della morte. Se proprio vuoi fare un salto mortale, allora non solo parli della morte, non solo la fai agire come un personaggio, ma decidi che le sue azioni scardinano il consueto ciclo naturale cui noi umani siamo abituati, e cioè che - guarda un po' - a un certo punto si muore, ne abbiamo naturalmente paura, ne abbiamo naturalmente cognizione, fin da quando nasciamo, o poco più tardi; decidi, insomma, che la morte d'un tratto dica Basta, domani non muore più nessuno, e provi a immaginare la catena di eventi, di reazioni a cascata che una tale, devastante modifica al normale quotidiano riesce ad innescare. La crisi sociale ed economica di ospedali e case di riposo intasate, le rimostranze dei becchini disoccupati e degli assicuratori preoccupati, l'imbarazzo della Chiesa, il sempre più malcelato ribrezzo dei vivi nei confronti dei moribondi destinati al limbo, dei vecchi sempre più vecchi, dei malati terminali senza termine.
Devi essere un genio della letteratura per riuscire a incanalare con efficacia questo flusso di umanità e di meschinità in parole scritte, convincenti ed esatte. Devi essere uno dei pochi nell'olimpo degli scrittori per intravederne la gigantesca ironia e non cedere al cinismo, rimanere leggero, mentre la ri-racconti.
Saramago ci riesce, non c'è nulla da dire. E' per questo che con lui vado sempre a scatola chiusa, certa che la lettura di un suo libro non sarà mai solo intrattenimento, ma ricchezza intima e nitidezza maggiore nel vedere il mondo, una sfumatura, un dettaglio in più.
Circa un mese fa, ho finito di leggere un manga piuttosto famoso che si intitola "Death note". Di nuovo la morte, stavolta nei panni di un dio annoiato che, per diletto, lascia cadere nel mondo degli umani il suo quaderno, quello su cui scrive i nomi delle persone che decide di far morire. Il quaderno lo raccoglie un ragazzino, Light, annoiato pure lui, e con esso raccoglie anche la capacità di far morire i suoi simili con un tratto di penna.
L'ho detto: è difficile raccontare la morte. Mi dispiace, ma Death Note ci riesce solo a metà, perché l'idea è bella, è stimolante, ma non c'è nulla di quella saramaghesca capacità di interpretazione delle reazioni che gli esseri umani hanno di fronte alla fine della vita. Qualcosa che guarda agli istinti più ancestrali e alle convinzioni più nascoste riguardo se stessi e gli altri, riguardo il concetto di giustizia e di legame fra i simili.

E' lunedì, ho i capelli lisci, fra due ore rinnovo la patente, alla posta è arrivato il seggiolino da pendolare, ho appena finito il libro di Saramago intitolato "Le intermittenze della morte" e mi convinco che bisogna parlare di ciò che si sa, e sono contenta quando imparo qualcosa di nuovo, sono contenta quando consiglio un libro, quando discuto di un manga che non mi è piaciuto con un gruppo di amici, quando scrivo, ritagliando lo spazio e il silenzio necessari, nonostante i picchi negativi, e le altre priorità, e le ansie quotidiane.
Nonostante tutte le mie terrorizzanti intermittenze.


martedì 21 aprile 2015

Un sabato qualunque


Svegliarsi e essere Snoopy.
Realizzare di colpo di avere sposato Charlie Brown.
Preparare la colazione per i cognati ospiti, Lucy e Schroeder.
Aprire la porta alla cugina Woodstock.
Aspettare che arrivino gli ultimi amici, Linus e Cinque.
E poi interloquire con Joker, stare in fila con Elsa e Jon Snow, salutare Luigi e Tod, sorridere educatamente a Crudelia De Mon, che passeggia a braccetto con Malefica e Capitan Uncino.
Recitare un romanzo che comincia così: "era una notte buia e tempestosa..."
Infine, conquistare gli onori della cronaca.
Insomma, un sabato qualunque!

lunedì 13 aprile 2015

Le luci nelle case degli altri

E' un romanzo, lo so.
Ne ho una copia in libreria che non è mia: me l'ha prestata sarà un anno la mia cognata sicula e ancora non l'ho letta. Non è una giustificazione, ma a mia discolpa posso dire che è alquanto voluminosa, quindi inadatta ad essere trasportata nelle borse pendolari, assieme alla schiscetta del cibo e a tutto il resto.

Allora che c'entra, direte voi, che siete lettori arguti e non vi sfugge nulla.
Ha un bel titolo, ecco che c'entra. Anzi di più: ha un titolo adatto, perfetto per la riflessione che mi ronza in testa da un po' e che testé srotolo in righe di pixel, in questo tardo pomeriggio raffreddato, respirato a bocca aperta, con troppi colpi di tosse a farmi sobbalzare.

Ne abbiamo viste tante, di case, in questi ultimi tre mesi. Alla ricerca della nostra, che ancora non è il momento di parlarne. Il punto è, a posteriori, ripensare al fatto di aver messo i piedi e gli occhi in delle vite altrui, così, quasi senza chiedere permesso, a volte un po' a casaccio, random.
Perché le case in vendita sono quasi tutte abitate, ci sono dentro persone che stanno lì da anni, da decenni, le vedi intridere gli angoli, gli stipiti delle porte, l'aria stessa.

Quello che io ho sentito, ogni volta, è di essere un invasore illegittimo. Girovagare in uno spazio intimo, che inevitabilmente racconta pezzi di vita che io ascriverei al pudore, alla dignità della riservatezza.

Che poi succede così: non stai a guardare solo i metri quadri, e l'esposizione, e le spese condominiali. Per forza di cose lo sforzo intellettuale ed emotivo ti porta ad immedesimarti nei volumi, a immaginare le tue cose, i tuoi ricordi già sparsi sulle mensole, il profumo del tuo cibo che cuoce sui fornelli e per riuscirci, per dare corpo alle tue visioni prospettiche, finisce che stai attenta ai dettagli spiccioli, quelli non sottolineati dall'agente immobiliare, e ricostruisci la vita che c'è dietro: le famiglie, le solitudini, le vecchiaie, le stanchezze. Chissà perché, ogni volta mi lasciano addosso la malinconia.

C'era la signora con le porte uguali a quelle di mia zia, le mattonelle della cucina sbreccate e la gentilezza a bassa voce, un poco velata dalla vedovanza. Una casa troppo grande, ora. Le ricette del medico ancora nello studio, rete quattro alla tv accesa.

C'erano gli indiani sorridenti, le scarpe affastellate in ogni angolo e uno che dormiva quando abbiamo acceso la luce nella stanza da letto.

C'era il ragazzo che sognava di andare via, l'abnorme differenza fra lui e la madre che abitava al piano di sotto, i due appartamenti collegati da una scala a chiocciola che sembrava il ponte fra due universi lontanissimi, uno fatto di svolazzi barocchi e ricchezza altoborghese ostentata, l'altro specchio del single che a stento cucina, la playstation prima di tutto.

C'erano i due pensionati, i disegni dei nipotini dappertutto. Una casa in pieno centro che non serve a nulla, se è lontano dai figli, dalle risate, dal caos.

Io mi chiedo, se venissero qui, gli estranei. Quando verranno - perché verranno - gli estranei a vedere casa nostra, prima del trasloco. Mi chiedo se guarderanno le cose come le ho guardate io e cosa noteranno di me, di noi, appiccicato sugli oggetti con cui lentamente, giorno dopo giorno, abbiamo riempito questa casa, fino ad ora.
Chissà come mi racconto, nello spazio che abito. Cosa dicono di me i miei libri? I colori dei mobili? Le cianfrusaglie? Quanto saltano all'occhio le imperfezioni che per me ormai fanno parte armonicamente del contesto che mi vede svegliarmi e addormentarmi ogni giorno, tutti i giorni?
E cosa noterei io, se non mi conoscessi, entrando qui? Forse i giocattoli, i lego, anche se non ci sono bambini. Forse le bislaccherie, tipo quelle foto, o quella decorazione natalizia che è ancora ostinatamente appesa sopra la porta della cucina. Magari, se fossi davvero attenta, noterei l'orologio che gira in senso antiorario.
Ma dovrei fermarmi qualche secondo, per accorgermene. Magari, se lo notassi, sorriderei.
E se io vedessi un estraneo sorridere, guardando il mio orologio, io sarei felice.
Sarei felice se, uscendo, si portasse dietro un singulto di ironia, al posto della malinconia. Se restasse colpito, divertito, rallegrato. Se ricordasse, ripensandoci, un posto caldo e bislacco, pieno di cose fuori posto e accenni ad altri luoghi e non luoghi, strabordanti e vivi.
Perché è esattamente così che vorrei che fosse casa mia, per tutti quelli che ci entrano.
E magari ci ritornano.

venerdì 3 aprile 2015

Marzo pazzerello, esce il sole e prendi l'ombrello

A tentare di riordinare nella mente la vita passata dell'ultimo mese faccio una fatica boia.
Marzo m'è scivolato fra le dita con una velocità stratosferica, uno sguisccc di sapone sotto le tappine da doccia.

Mi giro e sono a Venezia, mi rigiro e devo fare la spesa per il pranzo di pasqua. 
Mh.

Marzo pazzerello, esce il sole e prendi l'ombrello, recita l'adagio infantile. Marzo sui sussidiari lo disegnano così: il sole velato da una nuvola, dalla quale cade a gocce spesse una pioggia trasversale. 
Mi pare un'immagine adatta.

Muovendomi a gran velocità, ho attraversato i giorni di questa fine d'inverno senza rendermi troppo conto del divenire, attenta al presente, tutt'al più alle cose da fare domani, poi domani si penserà al resto, e così via.

E la cosa buffa, la cosa a ben vedere assai marzolina di questo mio marzo, è il fatto che beh, in fin dei conti, qualcosa mi ha lasciato, questo terzo mese duemilaquindici, varie postille bizzarre, episodi estemporanei e cambi di manovra che sì, a pensarci prima, valeva la pena di scriverci sopra, ma niente, il vento mi ha trascinato ogni volta appena più in là, dove ormai diventava inutile e posticcio ridirne, vabbè, sarà per la prossima. Una novella Mary Poppins, direi, mi manca solo l'ombrello con la faccia da pappagallo petulante sul manico.

Indi per cui, estimatori degli amarcord e dei bullet points, vi faccio contenti dicendovi che nel corso di marzo ho:

RIP lavabo (novembre 2009-marzo 2015)
- rotto il lavandino del bagno: non il tubo, né alcuna parte idraulica, ma la vasca di ceramica. Come? Facendogli cadere dentro una boccetta di profumo che, a quanto pare, è fatta di diamante puro, visto che non si è nemmeno scalfita. Agevolo la testimonianza iconografica del fatto.

- cambiato corso di yoga: ho abbandonato la matta mistica catanese (bella la pronuncia etnea del sanscrito) a favore di un corso molto più serio e senza menate filobuddhiste, cosa che il mio animo ad altissima base illuminista ama visceralmente. Unico neo: con quello che costa, frampo' andavo a farlo direttamente in India. Vabbe'.

- parlato ad un serissimo e professionalissimo convegno, di un argomento serissimo e professionalissimo, senza andare in iperventilazione. Applausi, grazie.

- visitato, insieme al consorte, ventordicimilamilioni di case in vendita, ma su questo argomento spero, promitto e juro che ci farò un post quanto prima...

- partecipato al festival torinese del cibo di strada, che mi ha permesso di trangugiare indecorose quantità di roba fritta e unta e goduriosa. Peccato ci sia costato come una cena di pesce. Vabbe' bis.

- cominciato una nuova dipendenza telefilmica: Once upon a time. Graziosa, invero, primaverile al punto giusto e con un buon tasso di deriva dipendente.

- quasi finito Death Note e Breaking Bad: mancano tre puntate dell'uno e dell'altro. Dell'uno, in parallelo, l'ultimo volume del manga. Occidente vs Oriente 1-0. E approfondirò anche questo...

- comprato l'ennesimo libro di Saramago, incurante dei venti volumi in attesa di lettura fermi ai box da un pezzo.

- rotto e quasi perso l'unghia dell'alluce destro. C'è da dire che è stata l'occasione per vincere la fobia del medico di famiglia ancora sconosciuto. Confido fortemente che tornerà allo stato normale prima dell'avvento dei sandali.

- in ultimo, cominciato a fare fitness very strong in casa: completamente aggratis, youtube-ti-amo, zero tempi morti. Lo so che fa molto videocassette anni ottanta, ma al momento mi sembra il compromesso giusto fra leggerezza e gusto. E poi avere la doccia a due metri dal tappetino e il pigiama a due metri dalla doccia non si batte proprio!

Mi sembra tutto. Gli ultimi giorni sono stati molto, molto movimentati e il giro di boa di aprile mi sta sembrando alquanto catartico.
Prevedo cumulonembi alternati a soli splendenti e raffiche di vento e - forse - temporali. Ma sono pronta, sono carica, e per l'occasione riscomodo perfino il sussidiario elementare...

Quando piove non mi cruccio, vado a spasso col capuccio!

Mai rinunciare a una rima baciata... ;)

lunedì 2 marzo 2015

Keep calm and Festina Lente

Oh, io a Venezia non c'ero mai stata.
Quindi febbraio 2015 si chiude con una mirabolante lacuna colmata, e son felice.

Sono stata brava.
L'ho mascherata per bene, questa tre giorni in laguna, sventolando brochure del gigaconvegno per gli addetti ai lavori sui libri del cinquecento, complice la Dirimpettaia - la stessa del Bergonzoni di san Valentino, per dire - e ce l'abbiamo fatta a mettere i deretani sul frecciabianca con tratta ovest-est, ché la formazione è importante.

Venezia, dunque.
Sba-bam. Che è il rumore della mia mandibola crollata verticale, alla vista di tanta stranissima bellezza. Tanto per cominciare il mare.
Essì, subito che mi tacciate di banalità, perdiana. Ma no, state a sentire. Il mare.
Il mare a me mi manca assai. Mi manca vederlo all'orizzonte, sapere che c'è, da qualche parte, nel paesaggio che ruotando a 360° il mio occhio recepisce, le Alpi sono belle, per carità, ma capisci... Mi manca l'odore, l'umidità. Con buona pace dei miei capelli, che tanto ricci lo sono già di base, al limite virano verso l'anarchico, donandomi un wild look tipo Medusa-coi-serpenti.
Per cui ecco, Venezia ha vinto facile facile, da subito. Perché il mare ce l'ha dappertutto.

Un pelo scomoda, a dirla tutta. E sali sul ponte, e scendi dal ponte, e taglia il canale, e fatti sto chilometro a piedi, e toh, guarda, c'è un altro ponte, e via così. Mettici un trolley e ottieni il disagio supremo. Però senza auto è una pacchia, lo devo dire.

Poi, mangia&bevi: io credo che i veneziani alimentino scientemente l'alcolismo. Perché ascoltami, amico ristoratore: non è possibile che mi dai uno spritz a due euro e una margherita me la fai pagare 9. Tu comprendi che così io rischio di finire a mollo nel canale prima di cena e sì, è piuttosto indelicato.

A dispetto del fatto che fosse la mia prima volta a Venezia, comunque, non ho visto praticamente nulla di canonico, se si esclude piazza san Marco - aiutami a dire wow - e il ponte di Rialto - aiutami a dire giapponesiovunque - piuttosto un paio di chicche che mi sento di consigliare: la mostra sulla Divina Marchesa [Luisa Casati, amante di D'Annunzio NdB] a Palazzo Fortuny e il labirinto di Borges sull'isola di San Giorgio. Borges, capite? Quello che ha scritto la frase che campeggia sotto il titolo del blog. Laggioia, la commozione.

Poi c'è il lato emotivo, e qua cambiamo registro.
C'è quella sensazione di vivere un contesto goliardico, in compagnia della Dirimpettaia, ché per la prima volta ci siamo vissute così h24 ed è stato bello riconoscere la sintonia vicendevole anche al di fuori dei loculi lavorativi.
C'è quel bisogno di pausa, di prendersela comoda, anche se poi nei fatti l'acido lattico nelle gambe sta ancora parlando con gli angeli, ma è una stanchezza serena,  appagata, non invasa dallo stress e dalla velocità.

Il gigaconvegno cui abbiamo partecipato era in onore di Aldo Manuzio, che moriva 500 anni fa. Chieracostui? Un tipografo, un genio del suo tempo, uno che in vent'anni di attività è riuscito a rivoluzionare il mondo dell'editoria e il modo di leggere i libri. Ha inventato, fra le altre cose, la virgola, il carattere corsivo (se si chiama italic è perché è una sua invenzione), le collane editoriali, il libro tascabile, i best seller e più in generale il marketing editoriale. A inizio '500, a Venezia. Quella stessa Venezia scomoda, coi ponti, le strade strette, l'isolanità. Eppure.



Aveva un simbolo, quell'uomo là, un delfino attorcigliato ad un'ancora, che rappresentava un motto: Festina Lente. Che vuol dire, pressappoco, Affrettati lentamente. Cioè fai le cose, falle bene, precise, efficaci. Ma con calma, con attenzione. Non a tirar via. Goditele, che poi il risultato è migliore. E nello stesso tempo, rimani al passo, non ti crogiolare nel tuo, non ti nascondere sotto al plaid, sul divano. Esci, incontra altre persone, conoscile, approfondiscile. Cogli le occasioni per imparare e rimetti subito in circolo le conoscenze. Trova il bello nel mondo, dagli spazio, dagli importanza.


Forse non era proprio tutto così esplicito, nella sua testa, forse sono io che ingigantisco apposta il messaggio. E' che mi stanno morendo le piante, visto che non le sto curando da un po'. Mi stanno morendo abbastanza stimoli e non va bene: devo ridare colore e brillantezza allo sguardo che appoggio su cose e persone, ritrovare le scintille di bellezza, fare in modo di raccontarle in velocità. Essere rapida e attenta. Maga del multitasking e sommelier del dettaglio. Voglio fare surf e immergermi in profondità. Essere a un tempo ancora e delfino.
Un equilibrio perfetto.



domenica 15 febbraio 2015

Cose belle #7

La dirimpettaia di scrivania che ti fa scoprire che Bergonzoni fa uno spettacolo a 15 euro a 5 Km di casa tua, il fatto di andarci insieme con consorti al seguito e altri due amici neofiti, scongiurando d'un subito la malefica combo aureolata sanvalentino-sanremo.




martedì 27 gennaio 2015

La memoria del giorno

"Valeriu', che stanno costruendo là?"
"E' un hotel, nonna"
"Bello! Mi sembrava una banca, però..."
"..."
"Valeriu'?
"Dimmi, nonna"
"Ma stanno costruendo una banca là?"
"No, nonna, è un hotel".

Mia nonna stira da dio. Se le dai una camicia comincia a svaporare di su, di giù, di lato, te la ripiega che manco quando è uscita dal negozio e quasi quasi ti pare male ad indossarla e sgualcirla di nuovo.
E' nata il 21 marzo del 1921, il giorno di inizio della primavera, prima femmina dopo tre figli maschi, era la Domenica delle Palme e per questo motivo le hanno dato un nome bizzarro: Irma Palma Maria.
E' alta per la sua generazione, quando esce in paese con le amiche deve camminare giù dal marciapiede, sennò si nota troppo la differenza.

"L'anello, l'anello con l'acquamarina, che fine ha fatto?"
"Dove l'hai messo?"
"Me l'ha preso qualcuno"
"Non ti ricordi dove l'hai messo?"
"Io non l'ho messo da nessuna parte"
E' qui. Appeso al polso di una delle mie bambole.

Mia nonna lavorava, da ragazza. Era impiegata all'anagrafe fascista, assegnava i ragazzini ai gruppi decisi dal duce in base all'età: giovani balilla, figli della lupa. Stipendio mensile: 300 lire.

"Venga signora, le faccio lo shampoo"
"Mio fratello Pepè mi fa ballare. Quando facciamo le piroette mi gira tutta la gonna! Valeriu' tieni, vammi a comprare le calze"
"Nonna, sono 50 lire..."
"E portami il resto".

Quando smette di passare la lucidatrice, prima che cominci la Ruota della Fortuna, mia nonna prende gli album delle fotografie della sua famiglia e mi racconta le storie del suo passato.
La memoria è una cosa importante. Non va sciupata. Va conservata, alimentata. Tramandata.

"E questo chi è?"
"Mio fratello Mario. Era bravissimo con i giochi di parole, le sciarade, i cruciverba. E scriveva poesie"
"E questo?"
"Lui è mio fratello Antonio. E' morto di tifo a quattordici anni. Le grida di mia madre ancora me le ricordo..."

Quando vengono a prendermi, Schindler's List è iniziato da poco. Hanno allestito una specie di sala cinema nella palestra della scuola per farci entrare tutte le terze classi del liceo. Sono ospite da mia zia, in questi giorni, perché i miei sono a Genova per vedere un medico che capisca qualcosa della malattia di mia madre, ma io non sono preoccupata: andrà bene.

"Dov'è?"
"Non lo so, è andata a buttare la spazzatura e non è rientrata!"
"Dobbiamo cercarla"
"Mamma, ma dove eri finita?"
"..."

Io mi ricordo gli occhi di mio cugino, fuori dalla palestra. E' venuto lui. Non c'è bisogno di dire niente, lo capisco in un istante, guardandolo. Non ho niente da dire. Solo un formicolio che parte dalla punta delle dita, e sale nello stomaco, alla gola, agli angoli degli occhi. Non so fare niente.

"Mamma, guardami, mi riconosci? Sono tua figlia!"
"Mia figlia? No, tu non sei mia figlia... Mia figlia è bellissima!"

Il brodo e la cioccolata calda. Io non lo so perché, ma tutte le volte è così: portano il brodo e la cioccolata calda. Dice che quando muore qualcuno si usa. Ho chiesto di tornare a casa mia. Sono da sola. I miei, nel frattempo, sono sull'aereo del ritorno. Io mi chiudo in casa, non rispondo al telefono, guardo un film. Metto la musica di Tracy Chapman, che mi pare adatta. Sono un'adolescente che ama scrivere. Scrivo. Esorcizzo. Ricordo mia nonna.

Gli ultimi mesi non era più lei. Siamo andati a salutarla per l'ultima volta almeno tre volte.
Che cosa buffa.
Salutare una persona pensando che sarà l'ultima volta che la vedi viva.
Si è rimpicciolita. Non è più tanto alta. Mi sembra inverosimile.

Bizzarra, alle volte, la vita.
Mia nonna, per dire, che decide di morire di Alzheimer giusto il giorno della Memoria.
Fa quasi ridere, detta così.

Io lo so che non è giusto, che non è storicamente corretto, che non è ortodosso.
Eppure.
Più ci penso, più non mi sembra possibile un'altra via.

Che non è così assurdo ricondurre le tragedie universali ai propri, intimi terremoti emotivi.
Che forse il modo giusto per capirla, la storia, è guardarla attraverso la lente di ciò che noi viviamo.
Introiettare gli eventi personalizzandoli.

Comprendere a fondo cosa significa avere paura di perdere tutto, la propria famiglia, la propria identità, i propri ricordi.

Per me è questo, oggi.
L'immagine che ho negli occhi, quattordici anni dopo la sua morte.
Ha il colore dei suoi capelli biondi, quando ancora erano biondi.
Ha l'odore del ferro da stiro, quando ancora riusciva a stare in piedi.
Ha la consistenza della cipria, quando ancora la custodiva gelosamente nell'anta destra dell'armadio.
Ha il gusto di pane, olio e pomodoro, quando ancora me lo preparava, i pomeriggi dei miei sette-otto-nove anni.
La mia memoria, il mio ricordo, oggi, è solo questo.
La voce dei suoi ricordi, quando ancora li aveva tutti, e me li regalava.


domenica 25 gennaio 2015

Mingalabar

Vuol dire "Buongiorno", ma anche "Benvenuto", e "Arrivederci", "Grazie", "Buona fortuna".
Arriviamo e fa caldo, un caldo di quelli che ho visto solo in Sicilia, in certi agosti aggressivi, saturo di umidità e con colonnine che segnano +37°, almeno.
La nostra guida si chiama Win, parla italiano e inglese, oltre al birmano, ovviamente, ci accoglie con un gran sorriso: "Benvenuti in Myanmar!", ci dice.

Il primo posto è Yangon, la capitale, o meglio quella che è stata la capitale fino a pochi anni fa, perché ora la capitale ufficiale è Naypyidaw, la 'città nuova', costruita apposta per contenere tutti gli uffici amministrativi e politici dello Stato, lontano dal mare - si sa mai gli Stati Uniti decidano di attaccare con la flotta.
Yangon è piena di gente, c'è un gran traffico di motorini, furgoni carichi di gente ("sono gli autobus", ci dice Win), automobili con il volante a destra, all'inglese, nonostante la guida sia come quella italiana: "retaggio del vecchio impero colonialista", ci dice Win, mentre sfioriamo un incidente ogni dieci secondi, ché gli specchietti retrovisori non fanno miracoli.
"Ora camminiamo a piedi", altrimenti la città neanche la vedi, è vero.
Ci hanno raccomandato di non mangiare il cibo di strada, ora capisco perché: ai banchetti alimentari, l'acqua ha sempre una bella sfumatura marroncina e gli odori delle cucine sono pungenti, troppo.
I birmani sono persone sottili, si muovono con gesti lenti, aggraziati, larghi lo stretto indispensabile.
"Pensate all'Italia di 80 anni fa", ci dice Win. Che poi lui non c'è mai stato in Italia. Vabbè.


Prima di partire ho cercato di sapere qualcosa in più su questo Paese, sulla sua storia e sulla sua cultura. Fino a pochi anni fa non è che ci potevi venire facilmente, in Birmania. La dittatura militare osteggiava il turismo, gli stranieri meno sapevano meglio era. Poi è arrivata lei, la Signora, la Lady. Provo ad accennare l'argomento a Win, ma sono un po' restia: non so come può reagire ai temi di politica. Lui si apre in un sorriso che mostra i denti macchiati di rosso per il betel che mastica tutto il giorno, gli occhi si illuminano quando parla della Signora, Aung San Suu Kyi. Lei è il volto della ribellione alla dittatura, il volto della lotta pacifica, una goccia che ha scavato la roccia per più di vent'anni, dal chiuso della sua casa qui, a Yangon, la sua prigione. Agli arresti domiciliari per gran parte della sua vita, senza poter vedere il marito e i figli, rimasti in Inghilterra - lui ha fatto in tempo a morire di cancro - senza poter andare a ritirare il Nobel per la pace, nel 1991. Ha usato tutto il premio per finanziare la costruzione di scuole e di ospedali, qui in Myanmar.
La adorano tutti, letteralmente. Alle passate elezioni il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, ha preso qualcosa come l'80% dei voti. Elezioni dichiarate nulle dalla giunta militare.
Quest'anno c'è il nuovo turno, quest'anno andrà bene, è la volta buona, ci dice Win.
Quello che so è che la dittatura militare birmana è stata una delle più violente degli ultimi cinquant'anni, quella che - per dire - ha ordinato di sparare sui monaci buddhisti che manifestavano pacificamente, nel 2007. Racconto a Win che me lo ricordo: io ero a Roma all'università e tutti si vestivano di arancione per testimoniare solidarietà al popolo birmano. Lui sorride, sorride sempre, anche mentre mi racconta che all'epoca si trovò a dover fuggire con il gruppo di turisti che stava accompagnando come noi in giro per il Paese, perché le ambasciate avevano declinato le responsabilità e l'impegno a proteggere gli stranieri, sorride anche quando mi racconta dei suoi sei mesi in prigione, alla fine degli anni ottanta, quando il movimento non violento della Signora era all'inizio. Sorride e io non so come faccia.
Ma qui tutti sorridono, tutti prendono la vita guardando al buono che c'è, al poco di luminoso, di prezioso che riescono a rintracciare in una quotidianità fatta di povertà, di scarsi servizi, di libertà limitata.
Win mi dice che a lui è andata bene. Ci sono stati suoi compagni di università che per una manifestazione hanno fatto due, tre, dieci anni di prigione. Mentre ci muoviamo per il Paese, da una città all'altra, lui si ferma in un negozio, in una bottega di artigiani, parla con i titolari e con gli operai per portare notizie dalla metropoli, aggiornamenti e speranze.

E' quasi sera quando arriviamo alla meta principale qui a Yangon, la Shwedagon Pagoda.
Dobbiamo toglierci le scarpe e le calze: nei templi buddisti si entra solo a piedi nudi, è un modo per testimoniare che tutti gli uomini sono uguali, a prescindere dallo stato sociale, culturale, economico.
Ho sempre avuto in testa l'idea che i templi buddhisti fossero simili alle nostre chiese: posti silenziosi, spirituali, quasi trascendenti. Tutto sbagliato: qui la religiosità è routine quotidiana, pregare è come parlare e camminare, ogni momento è buono e non c'è bisogno alcuno di ritagliare spazi di concentrazione mentale condivisi: ciascuno fa da solo, anche se intorno c'è il caos.





La pagoda è una gigantesca piazza piena di persone che camminano, si inginocchiano, attaccano foglie d'oro e orchidee alle statue del buddha, recitano versi in lingue antiche, fanno l'elemosina ai monaci. Mi stravolge la contrapposizione fra l'opulenza di questo monumento e la povertà delle persone che brulicano al suo interno, eppure sono loro ad alimentarla, con le offerte continue in soldi e in materia. A questo non possono rinunciare.

La mattina dopo siamo a Bagan, la città dei duemila stupa. Una sorta di gigantesca Valle dei Templi di Agrigento, ma al posto delle colonne greche ci sono templi buddhisti costruiti nel medioevo e abbandonati nel corso del tempo, fino a quando - pochi anni fa - questo posto è diventato sito di interesse archeologico e studiosi ed equipe di restauratori di tutto il mondo hanno investito tempo e risorse per recuperarlo.
Bagan è spazio vuoto, sterminato. Non ci sono le strade affollate di Yangon, non ci sono i palazzi alti e fatiscenti. Ci sono villaggi, mercati, zebù. Le donne si truccano tutte con una strana pasta gialla che serve per proteggere dal sole e per prevenire le rughe. In un villaggio una signora anziana ci saluta con trasporto: siamo noi gli intrusi qui, è evidente, ma l'ospitalità è sacra, la gentilezza è un gesto naturale. I suoi due figli, entrambi laureati, sono tornati qui per dare una mano all'attività di famiglia: costruire oggetti di bambù e resina da vendere ai turisti e agli hotel.




Questo viaggio sta incrinando i miei concetti di lavoro, soddisfazione, ansia, stress, felicità.





A Mandalay c'è uno dei più grandi monasteri della Birmania e uno dei pochi in cui sono ammessi visitatori "laici". Qui in Birmania è usanza comune mandare i propri figli, verso i dodici anni, a fare l'esperienza della vita del monaco, per almeno sei mesi. Win dice che per suo figlio sta aspettando l'anno prossimo. I monaci si svegliano all'alba, indossano una tunica rossa o arancione che gli viene tassativamente donata, così come il cibo che possono mangiare (ma non cucinare) altrettanto tassativamente entro mezzogiorno. Il resto è preghiera, vita eremitica, contemplazione silenziosa e lontana dal mondo. Per tanti ragazzi, il monastero è l'unica strada possibile per ricevere un'istruzione, così spesso succede che i sei mesi di prova si trasformano in una scelta di vita definitiva. I monaci sono comunque sul gradino più alto della scala sociale. E sono incredibilmente ragazzini.




L'ultima tappa del nostro viaggio è il Lago Inle, nel nord del paese. Qui fa più fresco, ma il sole brucia la pelle più che altrove. Le strade e le ferrovie, in Birmania, sono terribili. Percorrere un percorso di poche centinaia di Km può voler dire impiegare una decina di ore di viaggio, sobbalzando continuamente da uno sterrato all'altro. Per questo motivo, per spostarsi da un posto all'altro conviene prendere l'aereo: i voli durano al più una mezzoretta e lo stesso velivolo, un po' come un treno o un pullman, fa varie fermate intermedie per far scendere e salire i viaggiatori lungo un'unica tratta. Per la stessa ragione, anche sul lago gli spostamenti via terra sono evitati il più possibile, molto meglio salire in barca e percorrere il tragitto via acqua.

Le lance dei pescatori del Lago Inle sono un miracolo di equlibrio. Fanno salire anche noi su una di queste imbarcazioni, opportunamente resa più confortevole da sedie da giardino inchiodate all'interno dello scafo e rivestite da cuscini colorati - siamo turisti, ci trattano bene e soprattutto sanno che difficilmente saremmo capaci di non finire a mollo entro pochi secondi, se non ci dessero una mano loro. I pescatori remano restando all'impiedi sulla prua, con il remo lungo incastrato fra ginocchio e caviglia, come se fossero su un monopattino galleggiante. In questo modo riescono ad avere le mani libere per amministrare le reti. Sembrano aironi dal baricentro perfetto.



Il lago è sterminato, trovarcisi in mezzo senza riuscire a vedere altro che acqua e giunchi, fino all'orizzonte, dà le vertigini. Gli abitanti del posto vivono in simbiosi con l'acqua: le abitazioni sono palafitte, ogni famiglia ha almeno una barca, in acqua si svolgono le cerimonie religiose, la vita sociale, le compravendite.




Il silenzio che c'è, la sera.
La distanza da tutto il resto, da tutto ciò che conosco e riconosco come consueto, normale.
Quanto mi destabilizza, quanto mi riempie.

La luce, la luce opalescente che ammanta tutto, quando piove sul lago, irradia e raddoppia le immagini, senza più orizzonti, senza elementi alieni di disturbo.




Cosa mi resta?
Cosa mi salva, cosa ho salvato, dopo quasi quattro mesi?

La meraviglia, l'incanto, lo stupore,
avere negli occhi pezzi di umanità diversi, diversi davvero,
sapere che è possibile vivere in maniera differente,
con altri problemi, altre priorità,
aver incrociato sguardi e sorrisi e colori che mai prima d'ora ho agganciato e forse mai più rivedrò,
la pace ed il caos,
la guerra e la pazienza,
la cantilena e il silenzio,
il riso e la nafta,
i fiori,
i capelli raccolti,
le fotografie della Lady appese in tutti i locali,
la speranza,

la voglia di guardare più oltre, al futuro, a superare d'un balzo finanche l'immaginazione, la mia limitata creatività, pensare che si può migliorare e dare bellezza ai dettagli,
ai momenti,
alle piccole, minime cose.

Mingalabar.



lunedì 19 gennaio 2015

Buona idea, Cattiva idea #11



Buona idea: per far fronte al Blue Monday, regalarsi un bicchiere di rosso, a pranzo.

Cattiva idea: per la depressione da Blue Monday, non dire di no al secondo bicchiere di rosso, a pranzo, e dover affrontare poi un pomeriggio di lavoro che prevede calcoli difficili, precisione e concentrazione.

martedì 13 gennaio 2015

Stream of Consciousness

Difficile a dire consciousness consciousnss conciou cons maledetto treno che barcolla e mi fa sbagliare i tasti maledetta base d'appoggio instabile benedetto il mio ultrabook supersottile e superleggero (ma che bel giocattolino che mi sono regalata) l'ho comprato per poter andare e venire andare e venire e avere l'agio la tranquillità il tempo e la voglia di saltabeccare nell'internet oh gaudio oh divertimento oh povere pupille mie già così stanche ché son le seiemmezza di sera e ancora non rinunci a ticcheggiare e touchscreenare manco mentre torni a casa - casa casa casa un plaid un divano l'ennesimo episodio di grey's anathomy (a tutti gli effetti è diventato una droga) e più ci penso più mi dico è un anno oggi è un anno il 13 gennaio un anno fa cominciava la mia vita pendolare torino milano torino milano torino milano andare e venire per lavorare mi piace il mio lavoro mi piace molto mi dà soddisfazione e stanchezza e insofferenza alle volte e stress ma più di tutto soddisfazione torino milano torino milano mi piace anche lavorare a casa in pantofole mi piace preparare il pranzo e mangiarlo subito senza scaldarlo al microonde mi piace guardare dalla finestra e vedere la luce di Torino mi piacciono i miei ciclamini resistenti e persistenti mi piace la calma e mi piace skype e le videochiamate con la mia collega in inghilterra quella giovane e brava e preparata davvero ha la mia età e un figlio di due anni come diavolo fa io non lo so non lo so questo natale è stato strano questo natale tutti lì a guardarci e dirci eh beh e quando vi date una mossa e che aspettate eh aspettiamo caro lei aspettiamo certo che aspettiamo non se ne parla levatevelo dalla testa tutti e tutti più uno per carità percaritàdiddio ho ripreso la routine sì ho ripreso il corso di yoga il corso di striding il corso in piscina ho ripreso a fare la spesa con tante verdure ho ripreso a preparare il caffè la sera per la mattina e vado in bici vado tanto in bici domenica per dire abbiamo fatto 22 km fino a Stupinigi e ritorno bellissimo una giornata da dio peccato il vento alla fine che fra un po' ci si porta via che poi il vento a torino quando mai manco fossimo a catanzaro forse è stato per darmi un accenno di nostalgia forse chissà forse chissà i miei genitori hanno fatto i biglietti per venire da noi a marzo tre giorni mi ritrovo a consultare il calendario e avere i dettagli fino a giugno o quasi come è possibile come a febbraio roma e venezia a marzo i miei ad aprile pasqua con mio fratello (forse) poi il torino comics che quest'anno si cosplayzza alla grande ma prima (forse) scendo di nuovo a catanzaro magari un weekend e poi ancora salamanca e forse barcellona e poi la puglia a giugno ma a maggio c'è la fiera del libro che fai te ne scordi ed ecco è un attimo che devi programmare le vacanze estive una pazzia insomma una pazzia mi va di stare ferma mi va di vivere casa mia casa mia per piccina che tu sia non vai quasi più bene dobbiamo cercarne una nuova che per caso qualcuno di voi vende casa in zona porta susa massimo massimo zona tribunale? qua le chiacchiere stanno a zero tocca cominciare a cercare immobiliare.it come pagina iniziale e via ecco non so se ne saremo capaci non lo so e un po' ho paura un po' mi sembra una cosa più grande di noi ma non sia mai che ce ne stiamo troppo tempo con le mani in mano non sia mai che ci annoiamo quei due giorni e due notti no no non fa per noi e allora di che ti lamenti ma no di niente è che era un po' che non scrivevo e dovevo aggiornare tutti ma tutti chi tutti quelli che passano che sia uno che siano cento poco importa ora va meglio ora sì posso tornare al dondolio al barcollamento frecciarosso dovrei essere arrivata e non lo sono sarà in ritardo eh sì sarà in ritardo 'tacci sua magari rileggo sto sproloquio magari sì dai così correggo gli errori di battitura e mi rilasso e poi collasso e metto un punto punto.