E' un romanzo, lo so.
Ne ho una copia in libreria che non è mia: me l'ha prestata sarà un anno la mia cognata sicula e ancora non l'ho letta. Non è una giustificazione, ma a mia discolpa posso dire che è alquanto voluminosa, quindi inadatta ad essere trasportata nelle borse pendolari, assieme alla schiscetta del cibo e a tutto il resto.
Allora che c'entra, direte voi, che siete lettori arguti e non vi sfugge nulla.
Ha un bel titolo, ecco che c'entra. Anzi di più: ha un titolo adatto, perfetto per la riflessione che mi ronza in testa da un po' e che testé srotolo in righe di pixel, in questo tardo pomeriggio raffreddato, respirato a bocca aperta, con troppi colpi di tosse a farmi sobbalzare.
Ne abbiamo viste tante, di case, in questi ultimi tre mesi. Alla ricerca della nostra, che ancora non è il momento di parlarne. Il punto è, a posteriori, ripensare al fatto di aver messo i piedi e gli occhi in delle vite altrui, così, quasi senza chiedere permesso, a volte un po' a casaccio, random.
Perché le case in vendita sono quasi tutte abitate, ci sono dentro persone che stanno lì da anni, da decenni, le vedi intridere gli angoli, gli stipiti delle porte, l'aria stessa.
Quello che io ho sentito, ogni volta, è di essere un invasore illegittimo. Girovagare in uno spazio intimo, che inevitabilmente racconta pezzi di vita che io ascriverei al pudore, alla dignità della riservatezza.
Che poi succede così: non stai a guardare solo i metri quadri, e l'esposizione, e le spese condominiali. Per forza di cose lo sforzo intellettuale ed emotivo ti porta ad immedesimarti nei volumi, a immaginare le tue cose, i tuoi ricordi già sparsi sulle mensole, il profumo del tuo cibo che cuoce sui fornelli e per riuscirci, per dare corpo alle tue visioni prospettiche, finisce che stai attenta ai dettagli spiccioli, quelli non sottolineati dall'agente immobiliare, e ricostruisci la vita che c'è dietro: le famiglie, le solitudini, le vecchiaie, le stanchezze. Chissà perché, ogni volta mi lasciano addosso la malinconia.
C'era la signora con le porte uguali a quelle di mia zia, le mattonelle della cucina sbreccate e la gentilezza a bassa voce, un poco velata dalla vedovanza. Una casa troppo grande, ora. Le ricette del medico ancora nello studio, rete quattro alla tv accesa.
C'erano gli indiani sorridenti, le scarpe affastellate in ogni angolo e uno che dormiva quando abbiamo acceso la luce nella stanza da letto.
C'era il ragazzo che sognava di andare via, l'abnorme differenza fra lui e la madre che abitava al piano di sotto, i due appartamenti collegati da una scala a chiocciola che sembrava il ponte fra due universi lontanissimi, uno fatto di svolazzi barocchi e ricchezza altoborghese ostentata, l'altro specchio del single che a stento cucina, la playstation prima di tutto.
C'erano i due pensionati, i disegni dei nipotini dappertutto. Una casa in pieno centro che non serve a nulla, se è lontano dai figli, dalle risate, dal caos.
Io mi chiedo, se venissero qui, gli estranei. Quando verranno - perché verranno - gli estranei a vedere casa nostra, prima del trasloco. Mi chiedo se guarderanno le cose come le ho guardate io e cosa noteranno di me, di noi, appiccicato sugli oggetti con cui lentamente, giorno dopo giorno, abbiamo riempito questa casa, fino ad ora.
Chissà come mi racconto, nello spazio che abito. Cosa dicono di me i miei libri? I colori dei mobili? Le cianfrusaglie? Quanto saltano all'occhio le imperfezioni che per me ormai fanno parte armonicamente del contesto che mi vede svegliarmi e addormentarmi ogni giorno, tutti i giorni?
E cosa noterei io, se non mi conoscessi, entrando qui? Forse i giocattoli, i lego, anche se non ci sono bambini. Forse le bislaccherie, tipo quelle foto, o quella decorazione natalizia che è ancora ostinatamente appesa sopra la porta della cucina. Magari, se fossi davvero attenta, noterei l'orologio che gira in senso antiorario.
Ma dovrei fermarmi qualche secondo, per accorgermene. Magari, se lo notassi, sorriderei.
E se io vedessi un estraneo sorridere, guardando il mio orologio, io sarei felice.
Sarei felice se, uscendo, si portasse dietro un singulto di ironia, al posto della malinconia. Se restasse colpito, divertito, rallegrato. Se ricordasse, ripensandoci, un posto caldo e bislacco, pieno di cose fuori posto e accenni ad altri luoghi e non luoghi, strabordanti e vivi.
Perché è esattamente così che vorrei che fosse casa mia, per tutti quelli che ci entrano.
E magari ci ritornano.