domenica 25 gennaio 2015

Mingalabar

Vuol dire "Buongiorno", ma anche "Benvenuto", e "Arrivederci", "Grazie", "Buona fortuna".
Arriviamo e fa caldo, un caldo di quelli che ho visto solo in Sicilia, in certi agosti aggressivi, saturo di umidità e con colonnine che segnano +37°, almeno.
La nostra guida si chiama Win, parla italiano e inglese, oltre al birmano, ovviamente, ci accoglie con un gran sorriso: "Benvenuti in Myanmar!", ci dice.

Il primo posto è Yangon, la capitale, o meglio quella che è stata la capitale fino a pochi anni fa, perché ora la capitale ufficiale è Naypyidaw, la 'città nuova', costruita apposta per contenere tutti gli uffici amministrativi e politici dello Stato, lontano dal mare - si sa mai gli Stati Uniti decidano di attaccare con la flotta.
Yangon è piena di gente, c'è un gran traffico di motorini, furgoni carichi di gente ("sono gli autobus", ci dice Win), automobili con il volante a destra, all'inglese, nonostante la guida sia come quella italiana: "retaggio del vecchio impero colonialista", ci dice Win, mentre sfioriamo un incidente ogni dieci secondi, ché gli specchietti retrovisori non fanno miracoli.
"Ora camminiamo a piedi", altrimenti la città neanche la vedi, è vero.
Ci hanno raccomandato di non mangiare il cibo di strada, ora capisco perché: ai banchetti alimentari, l'acqua ha sempre una bella sfumatura marroncina e gli odori delle cucine sono pungenti, troppo.
I birmani sono persone sottili, si muovono con gesti lenti, aggraziati, larghi lo stretto indispensabile.
"Pensate all'Italia di 80 anni fa", ci dice Win. Che poi lui non c'è mai stato in Italia. Vabbè.


Prima di partire ho cercato di sapere qualcosa in più su questo Paese, sulla sua storia e sulla sua cultura. Fino a pochi anni fa non è che ci potevi venire facilmente, in Birmania. La dittatura militare osteggiava il turismo, gli stranieri meno sapevano meglio era. Poi è arrivata lei, la Signora, la Lady. Provo ad accennare l'argomento a Win, ma sono un po' restia: non so come può reagire ai temi di politica. Lui si apre in un sorriso che mostra i denti macchiati di rosso per il betel che mastica tutto il giorno, gli occhi si illuminano quando parla della Signora, Aung San Suu Kyi. Lei è il volto della ribellione alla dittatura, il volto della lotta pacifica, una goccia che ha scavato la roccia per più di vent'anni, dal chiuso della sua casa qui, a Yangon, la sua prigione. Agli arresti domiciliari per gran parte della sua vita, senza poter vedere il marito e i figli, rimasti in Inghilterra - lui ha fatto in tempo a morire di cancro - senza poter andare a ritirare il Nobel per la pace, nel 1991. Ha usato tutto il premio per finanziare la costruzione di scuole e di ospedali, qui in Myanmar.
La adorano tutti, letteralmente. Alle passate elezioni il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, ha preso qualcosa come l'80% dei voti. Elezioni dichiarate nulle dalla giunta militare.
Quest'anno c'è il nuovo turno, quest'anno andrà bene, è la volta buona, ci dice Win.
Quello che so è che la dittatura militare birmana è stata una delle più violente degli ultimi cinquant'anni, quella che - per dire - ha ordinato di sparare sui monaci buddhisti che manifestavano pacificamente, nel 2007. Racconto a Win che me lo ricordo: io ero a Roma all'università e tutti si vestivano di arancione per testimoniare solidarietà al popolo birmano. Lui sorride, sorride sempre, anche mentre mi racconta che all'epoca si trovò a dover fuggire con il gruppo di turisti che stava accompagnando come noi in giro per il Paese, perché le ambasciate avevano declinato le responsabilità e l'impegno a proteggere gli stranieri, sorride anche quando mi racconta dei suoi sei mesi in prigione, alla fine degli anni ottanta, quando il movimento non violento della Signora era all'inizio. Sorride e io non so come faccia.
Ma qui tutti sorridono, tutti prendono la vita guardando al buono che c'è, al poco di luminoso, di prezioso che riescono a rintracciare in una quotidianità fatta di povertà, di scarsi servizi, di libertà limitata.
Win mi dice che a lui è andata bene. Ci sono stati suoi compagni di università che per una manifestazione hanno fatto due, tre, dieci anni di prigione. Mentre ci muoviamo per il Paese, da una città all'altra, lui si ferma in un negozio, in una bottega di artigiani, parla con i titolari e con gli operai per portare notizie dalla metropoli, aggiornamenti e speranze.

E' quasi sera quando arriviamo alla meta principale qui a Yangon, la Shwedagon Pagoda.
Dobbiamo toglierci le scarpe e le calze: nei templi buddisti si entra solo a piedi nudi, è un modo per testimoniare che tutti gli uomini sono uguali, a prescindere dallo stato sociale, culturale, economico.
Ho sempre avuto in testa l'idea che i templi buddhisti fossero simili alle nostre chiese: posti silenziosi, spirituali, quasi trascendenti. Tutto sbagliato: qui la religiosità è routine quotidiana, pregare è come parlare e camminare, ogni momento è buono e non c'è bisogno alcuno di ritagliare spazi di concentrazione mentale condivisi: ciascuno fa da solo, anche se intorno c'è il caos.





La pagoda è una gigantesca piazza piena di persone che camminano, si inginocchiano, attaccano foglie d'oro e orchidee alle statue del buddha, recitano versi in lingue antiche, fanno l'elemosina ai monaci. Mi stravolge la contrapposizione fra l'opulenza di questo monumento e la povertà delle persone che brulicano al suo interno, eppure sono loro ad alimentarla, con le offerte continue in soldi e in materia. A questo non possono rinunciare.

La mattina dopo siamo a Bagan, la città dei duemila stupa. Una sorta di gigantesca Valle dei Templi di Agrigento, ma al posto delle colonne greche ci sono templi buddhisti costruiti nel medioevo e abbandonati nel corso del tempo, fino a quando - pochi anni fa - questo posto è diventato sito di interesse archeologico e studiosi ed equipe di restauratori di tutto il mondo hanno investito tempo e risorse per recuperarlo.
Bagan è spazio vuoto, sterminato. Non ci sono le strade affollate di Yangon, non ci sono i palazzi alti e fatiscenti. Ci sono villaggi, mercati, zebù. Le donne si truccano tutte con una strana pasta gialla che serve per proteggere dal sole e per prevenire le rughe. In un villaggio una signora anziana ci saluta con trasporto: siamo noi gli intrusi qui, è evidente, ma l'ospitalità è sacra, la gentilezza è un gesto naturale. I suoi due figli, entrambi laureati, sono tornati qui per dare una mano all'attività di famiglia: costruire oggetti di bambù e resina da vendere ai turisti e agli hotel.




Questo viaggio sta incrinando i miei concetti di lavoro, soddisfazione, ansia, stress, felicità.





A Mandalay c'è uno dei più grandi monasteri della Birmania e uno dei pochi in cui sono ammessi visitatori "laici". Qui in Birmania è usanza comune mandare i propri figli, verso i dodici anni, a fare l'esperienza della vita del monaco, per almeno sei mesi. Win dice che per suo figlio sta aspettando l'anno prossimo. I monaci si svegliano all'alba, indossano una tunica rossa o arancione che gli viene tassativamente donata, così come il cibo che possono mangiare (ma non cucinare) altrettanto tassativamente entro mezzogiorno. Il resto è preghiera, vita eremitica, contemplazione silenziosa e lontana dal mondo. Per tanti ragazzi, il monastero è l'unica strada possibile per ricevere un'istruzione, così spesso succede che i sei mesi di prova si trasformano in una scelta di vita definitiva. I monaci sono comunque sul gradino più alto della scala sociale. E sono incredibilmente ragazzini.




L'ultima tappa del nostro viaggio è il Lago Inle, nel nord del paese. Qui fa più fresco, ma il sole brucia la pelle più che altrove. Le strade e le ferrovie, in Birmania, sono terribili. Percorrere un percorso di poche centinaia di Km può voler dire impiegare una decina di ore di viaggio, sobbalzando continuamente da uno sterrato all'altro. Per questo motivo, per spostarsi da un posto all'altro conviene prendere l'aereo: i voli durano al più una mezzoretta e lo stesso velivolo, un po' come un treno o un pullman, fa varie fermate intermedie per far scendere e salire i viaggiatori lungo un'unica tratta. Per la stessa ragione, anche sul lago gli spostamenti via terra sono evitati il più possibile, molto meglio salire in barca e percorrere il tragitto via acqua.

Le lance dei pescatori del Lago Inle sono un miracolo di equlibrio. Fanno salire anche noi su una di queste imbarcazioni, opportunamente resa più confortevole da sedie da giardino inchiodate all'interno dello scafo e rivestite da cuscini colorati - siamo turisti, ci trattano bene e soprattutto sanno che difficilmente saremmo capaci di non finire a mollo entro pochi secondi, se non ci dessero una mano loro. I pescatori remano restando all'impiedi sulla prua, con il remo lungo incastrato fra ginocchio e caviglia, come se fossero su un monopattino galleggiante. In questo modo riescono ad avere le mani libere per amministrare le reti. Sembrano aironi dal baricentro perfetto.



Il lago è sterminato, trovarcisi in mezzo senza riuscire a vedere altro che acqua e giunchi, fino all'orizzonte, dà le vertigini. Gli abitanti del posto vivono in simbiosi con l'acqua: le abitazioni sono palafitte, ogni famiglia ha almeno una barca, in acqua si svolgono le cerimonie religiose, la vita sociale, le compravendite.




Il silenzio che c'è, la sera.
La distanza da tutto il resto, da tutto ciò che conosco e riconosco come consueto, normale.
Quanto mi destabilizza, quanto mi riempie.

La luce, la luce opalescente che ammanta tutto, quando piove sul lago, irradia e raddoppia le immagini, senza più orizzonti, senza elementi alieni di disturbo.




Cosa mi resta?
Cosa mi salva, cosa ho salvato, dopo quasi quattro mesi?

La meraviglia, l'incanto, lo stupore,
avere negli occhi pezzi di umanità diversi, diversi davvero,
sapere che è possibile vivere in maniera differente,
con altri problemi, altre priorità,
aver incrociato sguardi e sorrisi e colori che mai prima d'ora ho agganciato e forse mai più rivedrò,
la pace ed il caos,
la guerra e la pazienza,
la cantilena e il silenzio,
il riso e la nafta,
i fiori,
i capelli raccolti,
le fotografie della Lady appese in tutti i locali,
la speranza,

la voglia di guardare più oltre, al futuro, a superare d'un balzo finanche l'immaginazione, la mia limitata creatività, pensare che si può migliorare e dare bellezza ai dettagli,
ai momenti,
alle piccole, minime cose.

Mingalabar.



16 commenti:

  1. Che viaggio meraviglioso mi hai fatto fare amica cara, complici pure queste meravigliose fotografie che hai postato..
    Esperienza unica, non stento a credere.
    Un abbraccio forte!

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    1. Grazie Nella, sono felice di essere riuscita a condividere le sensazioni che ho provato stando lì! Ti abbraccio!

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  2. Ottimo post Valeria!
    Sai ho un amico prete che è originario della Birmania, anche lui mi ha raccontato molte cose del suo paese.
    Una domanda: le foto le hai fatte tu? Sono uscite benissimo!

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    1. Grazie Marco! Sì, le foto sono mie, ma è tutta sfacciatissima fortuna!

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  3. non sono una che si lascia appassionare dall'oriente, ma certe atmosfere non possono lasciare indifferenti...
    viaggio magico

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    1. Sì, lo è stato, ed è valsa la pena rinunciare un poco alle occidentalissime nostre abitudini.. ;)

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    2. che spettacolo! Io penso che quando si prova ad andare in Oriente, beh, è difficile dire che non ci si appassioni. Provare per credere :)
      Bellissimo post!

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    3. Sono totalmente d'accordo con te!!!
      Grazie, Manu! :)

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  4. La tua guida ha un nome vincente XD
    Oh, le foto sono dannatamente contraddittorie, mettono a confronto ogni sfumatura di questo lontano oriente... Bellissime, un viaggio sicuramente appassionante.

    Moz-

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    1. Ma sai, l'ho pensato anche io quando mi si è presentato!! :D :D

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  5. In luoghi simili c'è sicuramente da accordare caos, nafta e servizi approssimativi con la bellezza che ti assale feroce, sporca e mischiata. Un viaggio anche faticoso che premia il discernimento e la voglia di acquisire senso. Te la cantilenano la felicità e la speranza. Se sei brava le cogli. E tu lo sei.

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    1. Grazie Franco, sono felice di avere scelto questa destnazione per un viaggio che difficilmente avrò l'occasione di ripetere!

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  6. Che viaggio Vale! in tutti i sensi :)
    Le foto sono davvero splendide, il racconto "chetooooodicoaffà?" visto che è un qualcosa che ti riesce benissimo, il finale molto intenso... semplicemente tutto molto bello :)
    Creati un futuro bellissimo e pieno di tutte le cose che vuoi metterci, dettagli, sfumature o capisaldi che siano... più in là di ogni orizzonte, e limite, un pò come questo tuo viaggio :)

    Un abbraccio :)

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    1. Grazie Maurizio, soprattutto per il tuo augurio: è esattamente l'idea che ho in testa.. ;)

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  7. Che posto incredibile. Non ho mai preso in considerazione un viaggio laggiù.

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