La prima volta che sono stata in Sicilia avrò avuto otto o nove anni.
Mi ricordo il traghetto e il palazzetto dello sport di Catania dove, vestita da scoiattolo, partecipavo a una competizione di danza. Niente altro.
La seconda volta che sono stata in Sicilia era il 2001, ed è stata anche la seconda volta che ho rivisto il mio consorte dal vivo. Era Messina e lui saltò la scuola per prendere un treno che, da Palermo, lo portasse all'altro vertice dell'isola per passare due ore insieme.
La terza volta che sono stata in Sicilia è stato un anno dopo la seconda, e stavolta a Palermo ci sono andata io, a casa sua.
La prima di innumerevoli volte successive.
Descrivere la Sicilia non è facile affatto.
Qualcuno mi ha chiesto se davvero esista quella Sicilia che si vede nelle puntate di Montalbano, quella specie di mondo giallo e caldo in cui il tempo pare essersi fermato, o comunque, sembra andare avanti molto pigramente. Rispondo: esiste, anche se non è proprio così letteraria.
Meno sedie di paglia, meno vesiti neri da donna, più plastica, più rumore.
Ma lo stesso, incomprensibile, equilibrio a sè stante.
Non conosco tutta l'isola, ovviamente (anche se per paradosso ho visitato più posti in Sicilia che in Calabria), e certamente la mia opinione e il mio racconto partono da Palermo, anzi meglio da Bagheria (sì, quella di Tornatore, e della Maraini, e di Provenzano) che è la patria natia del consorte.
Quindi mi scusino i siciliani alla lettura se si sentono ingiustamente chiamati in causa.
E mi scusino pure i palermitani e i bagheresi, non si sa mai.
E anzi, partiamo proprio da qui: la Sicilia è permalosa.
Vieni pure, traghetta, guarda, fai il bagno, suda per il caldo, fotografa i templi, la storia, la polvere. Ma non giudicare. Non si tratta di semplice campanilismo. E' qualcosa di più simile alla gelosia.
Se non ci sei nato non puoi capire.
Questo diventa una specie di mantra.
La Sicilia ama improvvisare. I siciliani sanno sbrigarsela prodigiosamente, nell'emergenza. Qualcosa che da queste sabaude parti è parente dell'impossibile. C'è una capacità innata nel trovare soluzioni a problemi quotidiani, a ostacoli antipatici, un tubo che perde, la precedenza ad un incrocio, un lavoro da inventarsi per campare.
La Sicilia possiede la bellezza dei dettagli. C'è una battuta famosa del film 'i cento passi', in cui Peppino Impastato descrive l'attitudine dei siciliani ad abituarsi a paessaggi orrendi, pur di aggiungere in essi qualcosa che li renda familiari. Una casa di lamiera, ma con le tendine e i gerani. Ecco, io credo che per vedere la bellezza, la tanta bellezza della Sicilia, bisogna imparare ad astrarre i dettagli dal contesto, ignorare i cassonetti straripanti di sacchetti e isolare il fregio antico di una villa, mettere da parte il metallo che pugnala certe case diroccate e concentrarsi su un golfo sul mare, su un fico d'india. Non voglio parlare per stereotipi ma credetemi, è difficile davvero dare un'idea esatta di cosa intendo.
Se non ci sei stato non puoi capire.
Lo vedete, ci casco pure io.
La Sicilia è in perenne equilibrio. Prima parlavo della facilità con cui i siciliani trovano soluzioni ai problemi. E' una grossa qualità, un talento creativo direi. Ma l'altra faccia della medaglia sta nel fatto che queste soluzioni sono sempre precarie, mai durature, mai lungimiranti. Finché riesco a far stare la mia busta di spazzatura nel mucchio senza farla rotolare via, allora non è un mio problema. Mi costa dire che anche dalle mie parti, purtroppo, si ragiona spesso così. Finché posso dipingere il mio palazzo di verde, o lasciarlo cadere a pezzi, nonostante tutto ciò che c'è intorno, allora non è un mio problema. I risultati possibili sono due: le cose non durano a lungo o, se durano, sono fatalmente brutte. Come direbbe mio suocero, l'antica arte dell'arripizzamento (il riparare alla bell'e meglio).
La Sicilia va piano. Con calma. Che fretta c'è. Pensiamoci. Poi vediamo. Aspetta. Siediti.
Ci sono momenti in cui questo approccio al mondo mi manca moltissimo. Ci sono strade in cui il tempo davvero sembra essersi fermato, vecchine affacciate come le racconta Camilleri, e sedie sull'uscio, e uomini vestiti di tutto punto col cappello bianco e il bastone accomodati a guardare il resto passare. Le auto arrivano a lambire gli alluci e loro non si spostano di un millimetro. Il vicolo è loro, sono loro a decidere la tua velocità. Quindi piano. Vai piano.

La Sicilia, come dimenticarlo, è un'isola.
Scavalcate l'apparente banalità dell'affermazione. Io non l'avevo capito fino a quando il consorte una volta mi disse: se voglio, posso prendere qualunque treno, andare in posti che non conosco ed avere comunque la certezza di non uscire da qui; sul continente non è la stessa cosa: rischi di perderti e chissà dove arrivi. Il mare, tutto intorno, che abbraccia, che protegge, che tiene distante il resto.
Nel bene e nel male.
E' una specie di calamita, una madre possessiva che stenta a lasciarti andare, e non lo fa mai del tutto, se sei suo figlio. Se sei nato lì. E, al contrario, non riesce mai a farti entrare davvero nel suo cuore, se vieni da un'altra terra. Io lo vedo, su di me.
Perché la racconto senza essere siciliana.
E lo so, lo sento come un brivido dietro le orecchie, che questo ai siciliani non piacerà. Che non è un mio diritto.
Io, che la Sicilia la amo perché è la mia seconda casa (o la terza? o
la quarta?), perché lì ho affetti che non si possono sradicare e perché
la vedo riflessa nella pelle e nei gesti della persona che mi sta
accanto ogni giorno.
Perché adoro vederla apparire arrivando a Villa S. Giovanni in treno o in macchina.
E poter dire, con gli occhi familiari di una figlia acquisita, Ecco, sono tornata, ti riconosco.