Essere empatica mi riesce difficile.
Ascoltare gli altri con un coinvolgimento emotivo autentico, com-patire, immedesimarsi. E' raro.
Più spesso, analizzo, raccolgo dati, propongo soluzioni, spesso plausibili e azzeccate, mi compiaccio di questo.
Mi succede anche con me stessa. Non mi ascolto con l'istinto, quando vivo emozioni forti mi gira la testa, mi sembra di essere al di fuori di me, incapace di vivere nell'attimo, di assaporarlo, di non pensarci su come se fosse un problema di geometria solida.
Dio, che menata filosofica.
Ho provato a mutare la forma delle cose.
Lasciarmi trasportare dal silenzio che riempie gli angoli di casa, mentre sono da sola.
Viverlo, farmi trapassare e imbibire come una spugna.
Sconfiggere i confini delle mie dita fino a riuscire a guardare il contesto nella sua infinitesimale bellezza.
Ho scoperto i dettagli, quelli che possono salvarmi.
Dalla noia, dall'inettitudine.
Scaldare la tazza, tuffare una bustina, bere.
Il calore che scende piano, nel palato, nella gola, nello stomaco.
Pausa. Un altro sorso. Daccapo.
Guardare fuori, il tramonto.
Non ignorare il brutto, l'intruso rumoroso, ma renderlo parte di un paesaggio che diventa, in un certo modo, evocativo e bellissimo.
Guardare dentro, stendermi sul letto.
Contare le righe delle lenzuola, le rughe del copriletto.
Immaginare il tepore che c'è dentro.
Lasciarmi andare nella forma presa dal materasso, con me sopra.
Tirare le gambe al petto, abbracciare le ginocchia, dondolare sulla sedia.
Chiudere gli occhi, ascoltare.
Il silenzio, il suo suono innaturale, devastante, enorme, catartico.
Sprofondare e perdersi, per un secondo, un minuto, un'ora.
Riemergere.
Alzarsi.
Ritornare.
Ripartire.