"... necessaria un'aspirina per non diventare matto", canticchiava allegro e skanchettoso l'adagio sempre attuale dei Matrioska. A me è bastato, per riprendermi dall'agonia del sabato sera, "L'accabadora" di Michela Murgia.
L'ho iniziato a mezzanotte, ieri sera, tentando di smaltire gli strascichi del malessere della prima e seconda serata che mi aveva costretta a rinunciare, con sguardo inappetente, a focaccia con verdure e crostata di frutta fresca. Quindi, digiuna e deboluccia, ho aperto questo romanzo.
Inciso: da un pò non leggevo una novità del panorama letterario italiano, preda di un misto di senso di colpa per il mancato aggiornamento, sfiducia congenita per i talenti gridati e predilezione ossequiosa dei classici conclamati.
Ma: divorato nello spazio di un dormiveglia di pochi minuti (ier sera) e delle ore antimeridiane appena concluse, devo dire che mi è piaciuto. Non è un capolavoro, assolutamente; ma se è vero che uno scrittore fa il suo dovere solo quando la sua storia persite, in un modo o nell'altro, nella testa del lettore, allora la Murgia può avere la coscienza a posto: il suo romanzo mi ha fatto passare mal di testa e nausea, lasciondomi il retrogusto di compiutezza ed evocazione che volevo.
Come e meglio di un buon vivinc.
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